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Speciale: UNBEATABLE e il cinema delle MMA

Articolo a cura di Giorgio Borroni

l combattimento è nato con l’uomo, e come ogni cosa è destinato a evolversi. Le arti marziali riflettono l’epoca in cui sono state concepite, così come la loro cultura di provenienza.
Per esempio è difficile non identificare il Karate, con la sua filosofia “un colpo = un morto”, con la mentalità giapponese (pur essendosi sviluppato a partire dagli stili provenienti dalla Cina).

 

I film di arti marziali non fanno differenza.
Si sono evoluti secondo le discipline più praticate o “in voga” in un determinato periodo.
Bruce Lee fu il primo a importare in America un tipo di film che a Hong Kong, come nel resto della Cina, era popolarissimo.
Ma fu anche abile ad adattare lo stile asiatico ai gusti occidentali, razionalizzando l’economia del combattimento sulla pellicola e soprattutto eliminando la tecnica del Wire Fu, il cavo che faceva compiere balzi mostruosi e irreali agli attori nei Wuxiapian (i film di “cappa e spada”, per intendersi).
Il Kung Fu al cinema dominò gli anni ’70, quando soprattutto grazie a Bruce divenne la disciplina più praticata in USA, tanto che celebrità del calibro di Steve McQueen erano soliti prendere lezioni dal Piccolo Drago.

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Bruce Lee, colui che ha reso celebri le arti marziali nel cinema

Dopo una breve incursione del Karate nelle pellicole, che però toccò quasi esclusivamente i lidi del comedy adolescenziale, con gli anni ’90 e l’esplosione del cinema action un’altra disciplina finì per spadroneggiare al botteghino e soprattutto nei prodotti straight to video: la Kickboxing.
Arte resa celebre da film come Kickboxer, con Jean Claude Van Damme (un karateka belga che aveva seguito le orme di Bruce Lee cercando fortuna negli USA) e nei circuiti minori in cui figuravano ex combattenti prestati ai film come Don “The Dragon” Wilson o Benny “The Jet” Usquidez.

Le trame di questi film molto spesso erano spicciole e votate più a propagandare le discipline di cui mostravano l’efficienza che a essere dei prodotti con velleità artistiche.
Tanto per fare un esempio, se pensiamo ai film successivi ad “Arma Perfetta”, la filmografia di Jeff Speakman non è che uno spot del Kenpo Karate, uno stile marziale sviluppatosi alle Hawaii e praticato persino da Elvis Presley (se vi siete chiesti come mai il celebre vestito bianco del Re del rock ‘n roll somiglia a un karategi… beh, perché effettivamente l’ispirazione gli venne indossando proprio il karategi durante gli allenamenti!).

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Jean Claude Van Damme, anche lui ha fatto la storia con pellicole sulle arti marziali

Tuttavia, fra polizieschi in cui agenti se la vedevano con serial killer a suon di calci e pugni e conti da regolare (indovinate un po’!) con le arti marziali, un canovaccio che trovò terreno fertile fu quella del cosiddetto Pit Fighting: i match illegali organizzati dalla malavita.
Van Damme ha contribuito molto allo sviluppo di questo filone con Lionheart e Colpi Proibiti, che propongono incontri senza limite di peso o regole, ma anche con Senza esclusione di colpi e La Prova, dove le regole ci sono, tuttavia gli stili di arti marziali messi a confronto sono diversi.

Tranne rare eccezioni come Costretto a Combattere con Lorenzo Lamas, i cloni di questi successi finivano per avere meno trama dei celebri videogame Streetfighter e Mortal Kombat, tuttavia insinuarono negli appassionati non poche domande su quale stile marziale fosse il più efficace. Discussioni da bar, lo ammettiamo, ma che al botteghino ripagavano sempre chi investiva su queste pellicole.
Elucubrazioni simili tra i praticanti di discipline da combattimento spinsero gli americani ad attingere a piene mani alla cultura giapponese – che già da tempo organizzava incontri “misti” con ibridi fra tecniche di sottomissione e tecniche di contatto – e a quella brasiliana, che con la Vale Tudo dava la sua benedizione persino a testate e colpi bassi.

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Liu Kang in Mortal Kombat

Nel 1993 il sogno di tutti gli appassionati di arti marziali e di film alla Senza esclusione di colpi divenne realtà.
Venne infatti fondata la UFC, (Ultimate Fighting Championship).
Un torneo senza classi di peso che dovesse stabilire quale fosse la tecnica più efficace al mondo.
L’immagine che questa competizione prese da subito, senza che gli organizzatori pensassero minimamente a scrollarsela di dosso, fu quella della rissa brutale legalizzata, della competizione animalesca e senza regole.

Lo stesso ring tradizionale per la Boxe o la Kickboxing venne accantonato a favore di un ottagono circondato da una gabbia, l’arena tipica dei film sui combattimenti clandestini.
Si dice che la realizzazione fosse stata commissionata al regista e sceneggiatore John Milius, allievo del campione di Brazilian Ju Jitsu Royce Gracie, anche se non si sa se l’idea fosse venuta al maestro.
Non è quindi strano che nel 1995, in un film di fantascienza distopico come Virtuosity, una scena clou tra Denzel Washington e Russell Crowe si svolga in una arena durante un incontro nella gabbia ottagonale in cui compare Ken Shamrock, pioniere delle arti marziali ancora in attività.

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Russel Crowe in Virtuosity

La fama di sport brutale e senza regole che avvicinava la UFC al Pit Fighting dei bassifondi cominciò a spargersi a macchia d’olio, tanto che in alcuni stati americani come l’Arizona queste competizioni vennero vietate.
Che la UFC venisse utilizzata in un siparietto comico in un episodio di Friends o che venisse presentata come “sport del futuro” in un film di fantascienza, la sua fama non migliorava di certo.

Come anche l’impostazione degli incontri, che assomigliavano sempre più a una rissa brutale senza quella epicità immortalata nelle coreografie dei classici film di arti marziali.
La UFC concepita come agli esordi non ebbe vita lunga.
Fallì per poi essere acquistata dalla Zuffa LLC, che impose anche un nuovo regolamento per gli incontri.
Basta testate, basta colpi sotto la cintura, basta con le classi di peso aperte e soprattutto gli incontri a mani nude delle prime edizioni ora prevedevano dei guanti protettivi studiati appositamente.
Il regolamento divenne severo e certi personaggi come Tank Abbott, fighter che spesso entrava nella gabbia ubriaco e con un atteggiamento sopra le righe, vennero allontanati.

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Le sfide fra stili terminarono, perché gli atleti cominciarono a capire che eccellere in una sola disciplina non avrebbe assicurato la vittoria.
Nacque dunque la denominazione di MMA, ovvero Mixed Martial Arts, disciplina sportiva che racchiudeva tecniche di striking, cioè pugni, calci e gomitate, e grappling, le prese che caratterizzano la Lotta Libera, il Judo e il Ju Jitsu.
Il cinema d’azione, che dopo gli anni ’90 aveva conosciuto una profonda crisi, non poteva certo lasciarsi sfuggire la possibilità data dalla crescente popolarità di questa nuova disciplina sportiva.

Una svolta importante per introdurre il pubblico allo stile del grappling è stato Redbelt, del 2008, un film autoriale, non certo di azione, che non è altro che una dichiarazione d’amore per il Brazilian JuJitsu, scritto e diretto da David Mamet, egli stesso un praticante di questa disciplina.
Si tratta di una pellicola sui generis perché una delle poche sulle arti marziali che non riduce i combattimenti a coreografie di pugni e calci, ma mostra il corpo a corpo vero e proprio e lotta a terra.
In questo senso, prima c’erano state solo le leve articolari dell’Aikido portato sullo schermo da Steven Seagal!
Tuttavia, senza l’esplosione delle MMA sarebbe stato impensabile portare a Hollywood delle tecniche come prese e sottomissioni, non certo spettacolari per profani o per la massa.

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Sempre del 2008 è Never Back Down, che personalmente considero come il vero erede e remake di Karate Kid come anche il primo film che sdogana definitivamente le MMA per il grande pubblico.
Ingiustamente sottovalutato dalla critica, il film mette in scena il dramma adolescenziale di un ragazzino turbolento che, dovendo trasferirsi in un’altra città, frequenta una scuola dove si organizzano tornei di MMA semi-legali e chi le dà viene sbattuto su Youtube e diventa un eroe, mentre chi le prende ridicolizzato da tutti.
Il gioco si fa duro quando il protagonista viene vessato da un ricco fighetto che eccelle nelle MMA e quindi dovrà rivolgersi a un maestro che questa volta non avrà gli occhi a mandorla del giapponese Pat Morita, ma l’accento carioca.

A dimostrazione di come il fulcro degli sport da combattimento si sia pian piano spostato dall’Asia al Brasile.
Never Back Down presenta una trama dalla struttura datata ma che ha ancora qualcosa da dire alle generazioni che non hanno mai vissuto l’epoca del “togli la cera, metti la cera” e può vantare ben due sequel con l’entrata nel cast della star del cinema marziale Michael Jay White nonché il cameo del campione di MMA Lyoto Machida, a dimostrazione ormai del solido matrimonio tra il cinema e questo sport da combattimento.

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A questo punto le scene d’azione dei film vengono sempre di più influenzate da questa nuova disciplina da combattimento.
Tanto che ormai nel corpo a corpo non è più considerato disonorevole prendere a pugni un avversario a terra perché è semplice “ground and pound”, per dirla nel modo tecnico.
In Expendables Stallone ingaggia la vecchia gloria della UFC Randy Couture che esegue numerosi “Superman punch” per la gioia dei fan che colgono la citazione, mentre proprio Sly non disdegna di utilizzare delle prese tipiche del Brazilian JuJitsu.

Nell’ambito dello straight to video di serie B, Hector Echivarria, che di base era attivo nel circuito della Kickboxing, ha da tempo iniziato a interpretare i panni del combattente “completo”, che passa agilmente dallo striking al grappling, mentre i comprimari dei suoi film sono ex campioni UFC come George St Pierre o Anderson Silva. Insomma, come già affermato in precedenza, lo stile marziale del momento sta dettando anche il passo nel concepimento di scene d’azione dei film.

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Randy Couture in “The Expendables”

Ormai in un certo tipo di cinema non c’è posto per trame che considerano le MMA come roba da incontri clandestini, tanto che nel 2012 The Philly Kid di Jason Connery viene interpretato come un prodotto “miope” dagli appassionati e soprattutto fuori tempo massimo.
Il protagonista del film, un ex wrestler che ha scontato una condanna per omicidio (tra l’altro nonostante la legittima difesa, un po’ come Nicholas Cage in Con Air) è costretto a pagare i debiti di un amico prendendo parte a brutali incontri di arti marziali miste, dove la gabbia è solo sinonimo di bestialità.
Inutile dire che lo spirito delle MMA qui viene travisato completamente come quello della Boxe viene travisato ne I gladiatori della strada di Rowdy Herrington.

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This is gonna hurt

La consacrazione delle MMA avviene però in un altro film, dove l’argomento viene affrontato in modo maturo e soprattutto dal punto di vista sportivo.
Chi combatte nella gabbia non è più una bestia o un disperato costretto a farlo, ma un praticante di uno sport rispettabile esattamente come la Boxe.
Sto parlando di Warrior del 2011, in cui Gavin O’Connor dirige attori del grosso calibro come Nick Nolte, eccezionale nella parte dell’allenatore tormentato, Joel Edgerton e un Tom Hardy a dir poco strepitoso che si destreggia tra scene d’azione e dramma.

Qualsiasi alone truce o di disciplina poco rispettabile viene spazzato definitivamente via da Colpi da maestro, un film commedia del 2012 con Kevin James e Salma Hayek, la cui trama sembra la versione “allegra” di Warrior, con un professore un po’ strambo che si improvvisa fighter per racimolare soldi e non far perdere il lavoro al suo collega HenryFonzieWinkler. Insomma, se sulle MMA ci si può scherzare anche sopra senza offendere nessuno, significa che ormai sono perfettamente integrate nella cultura di massa e soprattutto finalmente “capite”: lo dimostra il fatto che in USA molti stati che le avevano vietate stanno rivedendo le loro posizioni.

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Finora abbiamo parlato di film sulle MMA americani, ma come vengono sentite le MMA in Asia?
In Giappone, molto aperto a questo tipo di discipline, sono una realtà già dagli anni ’80, quando il primo vero Tiger Mask, Satoru Sayama, dopo i contrasti con la super star Antonio Inoki, smise con il Puroresu (il Wrestling giapponese) e cominciò a menare sul serio inventando lo Shooto, una disciplina ibrida che possiamo considerare come proto-MMA. In Tailandia, invece, ancora le MMA vengono osteggiate dalle federazioni di Thai Boxe, attaccate alla tradizione e timorose di essere detronizzate dalla moda marziale del momento. Del resto, se si parla di cinema, loro hanno Tony Yaa che riesce ancora a produrre del genuino action con stunt che sfidano le leggi fisiche (e la morte!).

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Antonio Inoki

Tuttavia è in Cina che sul versante cinematografico quest’anno è uscito il film più recente sulle MMA, ed è quello che mi appresto a recensire: Unbeatable, di Dante Lam.
Il film saccheggia a piene mani dal melodramma alla Rocky e rispettivi cloni come anche da corrispettivi asiatici sul genere del bellissimo Crying Fist. L’interprete principale è Nick Cheung, classe 1967 e una carriera ricchissima di successi, che per vestire il ruolo di un ex pugile ha messo su un fisico da far invidia a JCVD e Sly.

La trama è un calderone che mescola dramma, comedy e (poche) scene d’azione, ma che nulla aggiunge al cosiddetto filone del riscatto che può essere inseguito su un ring o in una gabbia.
Cheung è Faiil fallito”, un ex campione di Boxe che ha commesso il grave errore di vendersi l’incontro che gli avrebbe aperto le porte al “giro grosso” e ora si guadagna da vivere come taxista… ma si ritrova sempre in bolletta a causa del vizio delle scommesse.

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Una scena di Unbeatable

La vita di Fai cambia quando una donna in forte crisi depressiva per una tremenda disgrazia gli subaffitta una camera e così l’uomo si ritrova a vivere con lei e sua figlia Peidan, una bambina bisognosa di una figura paterna. Anche il giovane Li Siqi (Eddie Peng) entra nella caotica e turbolenta vita di Fai quando gli chiede di essere allenato per prendere parte a un torneo di MMA. Siqi ha bisogno di soldi per far uscire suo padre, alcolista e scialacquatore, da un brutto giro in cui si è ficcato, e vuole dimostrargli che niente è impossibile.

Già, perché, (udite, udite!) Li Siqi è a completo digiuno di MMA e non ha mai fatto a botte in vita sua.
Insomma, già da questo ci si può accorgere come il plot sia caricato al massimo di stereotipi nonostante giochi al rialzo e si allontani sempre di più da modelli come il già citato Crying Fist, che vedeva contrapposti un pugile anziano in cerca di riscatto esattamente come l’avversario giovane ex detenuto.

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Un’immagine di Crying Fist

La coralità, punto di forza di Crying Fist, in Unbeatable diventa però frammentarietà quando le vicende presentate si dividono tra un pugile fallito, un ragazzo da allenare, una bambina disadattata e una donna che fa avanti e indietro da una casa di cura psichiatrica all’altra.
Gli inserti comedy con l’intento di rendere agrodolce questo Rocky in salsa di soia sono palesemente dei siparietti tra un dramma personale e l’altro. In definitiva a scapitarci sono le scene d’azione, che in un film sulle MMA dovrebbero essere ben coreografate.
Da un lato un ex pugile che è del tutto inesperto con la lotta corpo a corpo e i calci, dall’altro un novizio che di scontri fisici non sa niente.
Come si pretende di entusiasmare un pubblico di appassionati?

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Il ring MMA

E, se anche questo film fosse rivolto ai neofiti (come Karate Kid non era certo rivolto ai fan di Chuck Norris), quello che manca è un avversario caratterizzato degnamente.
Già, perché se da Rocky e affini si vuole prendere spunto, bisogna però impararla bene la lezione.

Non c’è un Apollo Creed, né un Clubber Lang e neanche un Ivan Drago.
Il torneo di MMA è uno dei più anonimi mai visti, con poco pubblico e qualche fighter la cui unica caratterizzazione è il comportarsi da smargiasso.
È troppo poco per potersi appassionare e soprattutto questo non è supportato da incontri degni di nota. Nei film di arti marziali ci sono regole vecchie ma che vanno comunque rispettate.

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Clubber Lang, alias Mr. T

Gli incontri con cui si procede a vari livelli fanno molto videogame, ma aiutano anche ad aumentare il ritmo della storia fino al gran finale.
Qui non c’è pathos esattamente come non esiste una vera montagna da scalare.
C’è il debito in denaro, ci sono persone da redimere, è vero, ma il tutto non viene personificato da qualcuno da battere veramente per conquistare quella redenzione sbandierata e desiderata sin dai titoli di testa.

Certo, a livello di regia e fotografia è tutto patinato, tutto impeccabile.
Gli attori sono perfetti come perfetta la loro interpretazione.
Ma ad un film del genere manca il cuore, che non si sviluppa certo con la versione unplugged di The sound of silence gettata a mo’ di tormentone nelle scene più drammaticamente melense.
Il film è quindi sconsigliato ai fan dell’action e delle MMA, che resteranno delusi a vedere incontri senza capo né coda vinti con colpi di fortuna assurdi.
E d’altro canto credo sia troppo anche per chi cerca un film sulla redenzione alla Cinderella Man, a causa della sua melodrammaticità troppo urlata e quindi stucchevole.

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