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The Forest Of Love – Recensione

Quando stiamo per iniziare un film di Sion Sono sappiamo già più o meno cosa aspettarci, ovvero che non sappiamo mai cosa aspettarci.
Non importa quanto siamo abituati al sangue, alla violenza, alle torture, al sesso perverso tipici del suo cinema, Sion Sono troverà sempre un modo per sorprenderci, se non scandalizzarci.
Questo è quanto è successo alla sottoscritta dopo la visione della sua ultima pellicola distribuita da Netflix, The forest of Love.

Il film inizia raccontando dei diversi omicidi perpetrati in una foresta nei pressi di Tokyo per mano di un serial killer ancora a piede libero e che sta terrorizzando la città.
Tre aspiranti registi si convincono che Joe Murata (un incredibile Shiina Kippei), instancabile seduttore di donne, sia il vero omicida di cui tutti parlano e decidono di girare un film su di lui. Murata si unisce ai tre obbligando due ragazze che aveva sedotto in precedenza, Taeko (Kyoko Hinami) e Mitsuko (Eri Kamataki), a far parte della troupe.
Da qui in poi, i cinque ragazzi diventano le marionette di Murata e il film si trasforma in un orrendo susseguirsi di violenza fisica e psicologica per concludersi con un plot twist forse neanche troppo sorprendente.

Nel film ricorrono quelli che sono i temi più cari al regista: traumi giovanili, smembramenti, sadomasochismo e torture che, sebbene onnipresenti all’interno del suo cinema, sono inseriti con uno stile sempre originale e che non stanca mai.
Di smembramenti, per esempio, ne avevamo visti già in Cold Fish nel 2010, ma in The Forest of Love la macabra immaginazione del regista giapponese si spinge ben oltre.
Ne è un esempio la scena in cui due dei ragazzi si disfano di un cadavere di un loro amico facendolo a pezzi.

Murata ordina:

“Liberiamoci di lui tutti insieme… credo che dovremmo farlo a pezzi. Fatelo qui ragazzi. Prima fate drenare il sangue, tagliategli la gola e drenate il sangue. Poi prendete le parti mozzate e bollitele in una pentola. Dopo averlo fatto cuocere per ore, prendete la carne morbida e le viscere e frullatele con un mixer. Dopo aver polverizzato le ossa e i denti, fatene delle palline con il miso, poi impacchettatele in una decina di scatole per biscotti. Capito? Allora fatelo! ”.

Chapeau.

The Forest of Love assomiglia ad uno di quei sogni bizzarri che si fanno dopo aver mangiato troppo pesante.
La narrazione è contorta e non lineare e sia le immagini che i dialoghi ci avvolgono in un’aura di malessere e disagio costante.
Questo non solo perché il film è un pot-pourri di torture e dolore, ma anche perché nessuno dei personaggi si comporta razionalmente o reagisce come ci si aspetta.
I ragazzi che si sottopongono alle torture di Murata sono liberi di andarsene ma sviluppano tutti una sorta di tendenza autolesionista e di dipendenza tossica nei sui confronti che gli impedisce di stargli lontano e di fuggire da questo vortice di tragici eventi di cui Murata ne è l’epicentro.
Nessuno, neanche i personaggi secondari, riesce a scampare a questa logica dell’illogico che tanto piace a Sono e che è diventata la sua firma, il primo segno di riconoscimento del suo cinema del tutto singolare e che ormai sappiamo ben distinguere da qualsiasi altro film gore.

A fare da cornice a questo climax di autolesionismo e violenza fine a sé stessa è la sessualità, specie quella antitetica dei due personaggi femminili.
Da una parte c’è quella disinibita e depravata di Taeko, che intrattiene rapporti sessuali ogni giorno con un uomo diverso; dall’altra abbiamo quella repressa della pura Mitsuko, una venticinquenne ancora vergine imprigionata nel ricordo della sua vecchia compagna di liceo morta in un incidente, di cui era segretamente innamorata (ma che a sua volta, intratteneva una relazione lesbica con Taeko).
A queste si aggiunge la sessualità sadica e brutale del seduttore Murata, il quale usa le sue doti di ammaliatore per ingannare e catturare le sue prede, solitamente donne e ragazze ingenue o particolarmente fragili.

Ça va sans dire, The Forest of Love non è film per tutti.
Come per la maggior parte delle opere di Sono, gli spettatori deboli di stomaco e coloro che si scandalizzano facilmente possono avere difficoltà ad arrivare alla fine di questa forse troppo lunga pellicola di due ore e mezza.
Mentre da una parte, infatti, c’è chi loda l’impresa di Sono per essere tornato sui suoi passi dopo diverse produzioni mainstream, dall’altra c’è chi considera l’opera velleitaria e pretenziosa e che critica il regista per questo suo spingersi oltre i limiti dell’opportuno.

Ma l’arte, e dunque anche il cinema, è libertà assoluta di espressione e il suo stesso motivo di esistere è legato alla mancanza di vincoli o restrizioni di sorta.
Sono ci tiene a farlo presente nel suo film facendo urlare ai tre aspiranti registi che il cinema è tutto, il cinema è vita e che come la vita stessa a volte non è né bello, né morale.
Tralasciando il discorso sui limiti da imporsi (o non imporsi) nel cinema, mi sento di dire che The Forest of Love, è una buona pellicola, non un capolavoro e anche troppo lunga, ma di certo una delle migliori opere dai tratti gore degli ultimi anni, in grado di suscitare disgusto e malessere ma anche di far sorridere e riflettere.

Che dire, un piccolo fiorellino nell’esteso prato mainstream di Netflix.
Ne consiglio la visione agli amanti del genere, meglio se lontana dai pasti e, soprattutto, dai propri genitori.

Articolo a cura di Pamela De Santis