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The Boys in the Band su Netflix l’opera cult di Mart Crowley

“Show me a happy homosexual and I’ll show you a gay corpse.”

In questa raggelante battuta chiave, c’è tutto o comunque molto del film The Boys in the Band e della pièce teatrale di Mart Crowley.

L’opera dello scrittore aveva già avuto una trasposizione cinematografica nel 1970 distribuito in Italia col titolo Festa per il compleanno del caro amico Harold e diretto da William Friedkin poco prima delle sue opere più note come Il braccio violento della legge e L’esorcista.

Ma partiamo dal presupposto che riavvolgere il nastro e relazionarsi con un’ opera cult come The Boys in the Band, non è un’operazione facile.

La pièce di Mart Crowley sbarca al Theatre Four di New York City il 14 aprile del 1968 e ci rimane per migliaia di repliche.

E pensare che tutto è iniziato grazie ad una diatriba del New York Times da parte del critico Stanley Kauffman, che aveva sfidato i drammaturghi gay a scrivere direttamente su se stessi. In quegli anni infatti anche i più grandi autori dell’epoca come Tennessee Williams o Truman Capote erano spesso costretti o ad evitare l’argomento o a raccontare storie omosessuali codificandole in relazioni etero. The Boys in the Band che racconta di una divertente ma anche crudele serata tra un gruppo di amici gay, sbarcò dunque come un’autentica e deflagrante bomba a Broadway.

Questa nuova versione cinematografica 2020, nata dall’accordo tra Netflix e Ryan Murphy (American Horror Story, Hollywood), è stata diretta da Joe Mantello, già regista dello spettacolo teatrale andato in scena un paio di anni fa con il medesimo cast, tutto dichiaratamente gay.

Nel ruolo del festeggiato Harold, un sorprendente Zachary Quinto. In quello dell’ospite, tanto cattolico, colto, raffinato e stronzo, Jim Parson sempre più lontano dai panni di Sheldon Cooper. I due attori sono il cuore pulsante del film, non solo perché previsto dallo script ma anche per l’intensità delle loro interpretazioni. A completare i variegato cast ci sono anche Matt Bomer (White Collar, Magic Mike), Andrew Rannells (The New Normal sempre di Ryan Murphy), Charlie Carver (Teen Wolf), Robin de Jesús (Diventeranno famosi ma anche una lunga carriera teatrale), Tuc Watkins (General Hospital, Desperate Housewives), Michael Benjamin Washington (Ratched) e Brian Hutchison (anche lui con una solida carriera a Broadway e Off Broadway).

Un gruppo di attori che Mantello fa poca fatica a gestire, grazie al rodaggio teatrale. Ma il regista riesce anche a trovare gli spazi in una location che di spazi non ne ha, facendo respirare la storia e trovando il tempo di omaggiare alcune audaci scelte tecniche del maestro William Friedkin.

La trama ficcante e audace indaga tra i fantasmi del passato ma anche sui presenti conflitti personali tra i personaggi. La sceneggiatura, ricalca pedissequamente l’opera originale, concedendosi giusto qualche flashback.

Forse unico difetto è il doppiaggio italiano che perde (com’era stato già nel 1970) gran parte dei giochi di parola, doppi sensi, allusioni e lo slang. Si consiglia dunque la versione originale.

Nel complesso una brillante commedia agrodolce per ricordare una pagina importante del teatro contemporaneo e la memoria di Mart Crowley, purtroppo scomparso pochi mesi fa.