Sydney è un anziano giocatore d’azzardo che sta per entrare in un cafè nel mezzo del nulla nello Stato del Nevada. All’ingresso l’uomo incontra un John un giovane disperato, accasciato per terra, gli offre un caffè e una sigaretta in cambio vuole solo sapere cosa lo turba. John racconta al misterioso sconosciuto che ha bisogno di 6 mila dollari per seppellire la madre.
Sydney è colpito dalla storia e si offre di insegnarli alcuni trucchi e offrirgli la possibilità di diventare un professionista nella città tentacolare di Reno. Due anni dopo grazie agli insegnamenti di Sydney, John è diventato un brillante giocatore d’azzardo.
L’opera prima di Paul Thomas Anderson non nasce dal nulla, ma è il frutto del successo ottenuto tre anni prima nel 1993 dal cortometraggio Cigarettes & Coffee presentato Sundance Film Festival Shorts Program. Idealmente “Hard Eight” inizia proprio dove era finito il suo tanto acclamato corto, in un cafè dove un uomo anziano parla ad uno più giovane. In entrambi i casi si tratta di Philip Baker Hall, attore feticcio di PTA e personificazione della figura del mentore o padre surrogato presente anche nei successivi film del regista losangelino. Come Jack Horner/Burt Reynolds in Boogie Nights, Earl Partridge/Jason Robards in Magnolia, Daniel Plainview/Daniel Day Lewis ne Il petroliere oppure Lancaster Dodd/Philip Seymour Hoffman in The Master.
Il neo noir di Anderson è un film imperfetto, notturno e fascinoso.
Un’opera prima discutibile a causa soprattutto dell’intromissione della produzione nell’operato dell’esordiente regista.
Di certo però ci sono tutti gli stilemi e tòpoi tipici del cinema di Anderson. La coralità altmaniana innanzitutto, e in questo Reno sembra la Nashville di America Oggi. Poi ci sono i movimenti di macchina in stile Scorsese, semi-soggettive dove il dolly segue da dietro i personaggi nelle loro azioni.
La caratteristica whip-pan, ossia il movimento a frusta della telecamera che abbandona il soggetto per abbacinare la scena con una panoramica e poi riprendere il personaggio qualche secondo dopo. Audace vezzo che permette al regista di realizzare coinvolgenti piani sequenza. L’abitudine di attribuire ai personaggi i nomi di battesimo degli attori, che PTA prende in prestito da Cassavetes. Dal maestro del cinema indipendente americano Anderson poi attinge anche nel lasciare al cast una buona dose di improvvisazione. Indimenticabile resta la scena di Philip Seymour Hoffman che in Hard Eight ha una piccolissima parte, un giovane sbruffoncello alla ricerca dell’otto reale, ossia un otto con due dadi, grazie alla somma di due quattro (Hard Eight appunto), proprio davanti al personaggio di Sydney.
Baker Hall racconta di quanto Hoffman avesse in gran parte improvvisato la sua parte, con un senso del tempo da veterano della recitazione. A tal proposito l’anziano attore ebbe a dire: “Chi è questo ragazzo? Era così consapevole di tutto e aveva l’istinto di un attore molto più navigato. Quando ho iniziato a conoscerlo meglio e lavorare di più con lui, ho capito che era un genio e operava a un livello diverso rispetto al resto di noi”.
Non era la prima volta che Hoffman recitava in un film ovviamente. PTA lo aveva scelto dopo averlo apprezzato in Scent of a Woman – Profumo di donna di Martin Brest del 1992. E proprio sul personaggio di George Willis Jr., che Anderson aveva concepito quel piccolo, ma significativo cameo. La collaborazione tra il regista e il giovane attore, non finirà qui, ma continuerà con Boogie Nights, Magnolia, Punch-Drunk Love e The Master.
La performance di Hoffman non è la sola a centrare il segno. In Hard Eight tutto il cast è brillante ed essenziale. Tutti in underacting, tutti in sottrazione. Niente vezzi, solo recitazione. Il già citato Philip Baker Hall (sontuoso), John C. Reilly (posato), Gwyneth Paltrow (tormentata) e Samuel L. Jackson (sfrontato). Questo giovane 26enne riuscirebbe a far recitare bene anche un tubero, figuriamoci un gruppetto di attori con la A maiuscola.
PTA gira il film in economia e in soli 28 giorni, poi altre due settimane circa per montarlo, ma qui iniziano i problemi.
La produzione lavora per lo più con serie tv di discutibile qualità, stile Baywatch (come dice lo stesso Anderson), mettono bocca sul taglio, impongono cesoie ovunque, ma soprattutto cambiano il titolo del film da Sydney a Hard Eight. Questo perchè Sydney fa pensare all’Australia mentre nello slang dei giocatori Hard Eight è un’espressione conosciuta e pensano di poter trascinare al cinema più gente. Magari qualche patito di gioco d’azzardo. Anderson quel titolo lo odia, in un’intervista anni dopo dichiarerà che suonava come il nome di un film porno, non di certo un noir autoriale.
PTA fa ostruzione e presenta a Cannes il suo film con un suo personale montaggio, il tutto senza far sapere nulla ai produttori. Il film, nella sezione Un Certain Regard, viene elogiato, ma ai produttori poco importa. E’ l’inizio di una guerra che Anderson perderà, ma che farà crescere il regista che incassa il colpo e rilancia. Alla fine di quell’anno, sta già pensando ad altro. In testa ha di nuovo quella buffa prova giovanile, il mokumentary su Dirk Diggler e sul mondo della pornografia.