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Storia del cinema dell’Estremo Oriente: la New Wave di lingua cinese

CAPITOLO 7.1. TAIWAN.

Se, come abbiamo visto nell’articolo precedente, già negli anni ’60 il Giappone ha vissuto una rivoluzione cinematografica, la Nūberu Bāgu, è a partire dagli anni ’80 che nuove forme di cinema si diffondono anche negli altri paesi dell’Estremo Oriente. Ciò comporta anche la crescita di cinematografie precedentemente sconosciute al mondo. È questo il caso del Taiwan, il cui cinema in passato è stato fortemente propagandistico, con una carenza di produzioni e di registi; tuttavia, a partire da questi anni, grazie ad autori come Hou Hsiao-hsien, Ang Lee ed Edward Yang, i film taiwanesi cominciano ad esplorare le problematiche sociali, producendo pellicole dall’immenso valore artistico, che alcuni studiosi e critici annoverano tra le migliori cinematografie nazionali di sempre, come Fredric Jameson, che ha definito il nuovo cinema taiwanese come il più soddisfacente per lo spettatore di sempre, insieme a quello francese degli anni ’20 e ’30. Il governo taiwanese, a cavallo tra gli anni ’70 ed ’80, comincia ad usare il cinema come mezzo diplomatico e il CMPC affida a Hsiao Yeh e Wu Nien-jen, due scrittori, il compito di “talent scout” per giovani cineasti, con i quali avrebbero dovuto collaborare nella stesura delle sceneggiature. È così che, nel 1982 viene realizzato una delle pietre fondanti della nouvelle vague taiwanese, Guangyin de gushi (In our time), un’antologia composta da quattro cortometraggi diretti dal già menzionato Edward Yang, Tao Dechen, Ko Yi-cheng e Chang Yi. Nonostante il grande successo di questa mini quadrilogia, è di Hou Hsiao-hsien il maggior contributo per un riconoscimento internazionale della cinematografia della piccola Taiwan.

Sebbene avesse già realizzato dei film precedenti alla nascita del Nuovo Cinema taiwanese (due commedie musicali ed un film che ha segnato l’inizio dell’evoluzione verso il suo modo di fare cinema a cui siamo avvezzi), la sua prima interazione con la Nouvelle Vague vera e propria è come sceneggiatore: insieme a Chu Tien-wen, infatti, scrive un film realizzato da Chen Kun-hou, Growing up (Xiao Bi de gushi), pellicola già ascrivibile nel novero del Nuovo Cinema, grazie al “realismo del tono e per la scelta del soggetto” (“Cinema di Taiwan: dall’occupazione giapponese a oggi”, Bérénice Reynaud, in Storia del cinema mondiale volume IV, p.863), che sancisce la nascita della collaborazione tra Hou Hsiao-hsien e Chu Tien-wen, il quale parteciperà alla stesura di tutte le sceneggiature dei film del primo. Il cinema di Hou è fortemente incentrato sul tema della memoria: tra il 1984 ed il 1987, infatti, gira 3 film ispirati ad eventi della propria gioventù (A time to live, a time to die/Tóngnián wǎngshì, 1985) o di suoi colleghi e collaboratori, come Dōng dōng de jiàqī (In vacanza dal nonno, 1984, ispirato all’infanzia di Chu Tien-wen) e Liàn liàn fēng chén (Dust in the wind, 1986, tratto da un evento di gioventù di Wu Nien-jen). È nel 1989 che raggiunge la fama internazionale, con Città dolente (Bēiqíng chéngshì), primo film taiwanese della storia a vincere il Leone d’Oro alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, che indaga uno dei momenti cruciali della storia del Taiwan, quello tra l’agosto 1945 ed il dicembre 1949, dalla sconfitta giapponese fino alla vittoria di Mao e la fuga di Chiang Kai-shek. Città dolente non è che l’inicipit di una trilogia dedicata alla storia del Paese, continuata nel 1993 con Il maestro burattinaio (Xì mèng rénshēng), incentrato su una delle personalità più note del Taiwan, Li Tien-lu, un burattinaio che diviene il pretesto per Hou per raccontare i 45 anni dell’occupazione giapponese. La trilogia si conclude con Hǎonán hǎonǚ (Good men, good women), finanziato dalla Shochiku, film che si colloca in un contesto contemporaneo nel quale il passato continua a vivere dolorosamente.

“Il maestro burattinaio” di Hou Hsiao-hsien.

Non solo quello di Hou ma tutto il nuovo cinema taiwanese a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 affonda le proprie radici nella Storia. Uno degli esempi più importanti è quello del film datato 1991 di Edward Yang Gǔ lǐng jiē shàonián shārén shìjiàn (A brighter summer day), ambientato nella Taipei degli anni ’60, con protagonista una coppia di adolescenti, che guardano con ammirazione all’America (emblematica è la scelta musicale, con una canzone di Elvis Presley), mentre la gioventù taiwanese è ancora prigioniera della censura politica e di un Paese chiuso in sé stesso. Le pellicole taiwanesi di questo periodo affrontano costantemente il passato, che ritorna come un’ossessione anche nei film ambientati in epoca moderna, sotto forma di fantasma, come in Yuèguāng shàonián (Moonlight boy, 1993) di Yu Weiyen, riprendendo un topos caro alla tradizione di lingua cinese, o, in modo più moderno, con fax o ricostruzioni filmate come nel già citato Good men, good women di Hou Hsiao-hsien.

Negli anni ’90 si sviluppa una nuova espressione del nuovo cinema taiwanese che si confronta non più con il passato ma con le problematiche della modernità, che si materializzano nella grande metropoli asiatica, “sfondo contraddittorio e brulicante d’influenze diverse, calamita per le popolazioni contadine e per gli immigrati” (ivi. p. 872). Il nome più importante ed emblematico di questa generazione è, senza dubbio alcuno, quello Tsai Ming-liang, regista di origini malesi, la cui carriera nel cinema iniziò, come quella di Hou Hsiao-hsien, come sceneggiatore, quando ancora era uno studente dell’accademia d’arte drammatica. Il suo primo lungometraggio, I ribelli del dio neon (Qīngshàonián nǎ zhā, 1992), mostra già molte peculiarità del cinema di Tsai che si evolveranno e svilupperanno nel corso della sua ventennale carriera, fino a giungere alla lapidaria conclusione della sua filmografia, Stray dogs (‘Jiāoyóu, 2013): riprese per strada o in interni claustrofobici, l’uso di piani sequenza che, nel corso degli anni, si faranno sempre più lunghi e statici, il ritratto delle “impazienze, le passioni segrete, la confusione dei giovani di Taipei” (ivi. p. 873). Insieme a Tsai, comunque, anche molti altri più o meno giovani cineasti emergono per raccontare la loro visione della modernità: Chen Kuo-fu, ex critico cinematografico, Yeh Hong-wei, Chen Yiwen, che è stato apprendista di Edward Yang e Stan Lai,  e Chang Tso-chi, probabilmente il più interessante tra quelli appena citati. Chang, pur avendo già realizzato un film nel 1994, che però venne rimontato senza il suo permesso, può mostrare le sue reali capacità e la propria idea di cinema solo nel 1996, con il film Zhōng zǐ, che mostra l’attenzione e l’interessa che il regista nutre per i reietti della società, vittime della modernità. Alcuni giovani taiwanesi si recano negli Stati Uniti per studiare ed alcuni vi restano anche una volta conclusi gli studi: tra questi, il più famoso a livello internazionale è Ang Lee, che si stanzia a New York, ove realizza nel 1991 Pushing hands, prodotto da James Schamus, che vale al regista una certa notorietà. Ancora con Schamus realizza Il banchetto di nozze (1993) e, l’anno successivo, Mangiare bere uomo donna. Dopo il grande successo ottenuto in America, Lee decide di tornare in patria per dare nuova vita al cinema wuxia, riprendendo la lezione del Maestro King Hu: realizza, così, La tigre e il dragone (2000).

CAPITOLO 7.2. CINA

In Cina, il Nuovo Cinema muove i primi passi con la cosiddetta “quinta generazione”, ovvero quei registi che si son laureati all’Accademia cinematografica di Pechino dopo la sua riapertura avvenuta in seguito alla fine della rivoluzione culturale. Questa generazione, “nata” nel 1982, si pone in forte contrapposizione con gli stilemi del cinema maoista, che, come abbiamo già visto, ruotava attorno alla figura dell’eroe ed era di stampo fortemente propagandistico. I primi film di tre di questi giovani cineasti, Tian Zhuangzhuang (Horse thief, Dào mǎ zéi, 1986) , Zhang Yimou (Hóng gāoliáng, Sorgo rosso, 1987) e Chen Kaige (Huáng tǔdì, Yellow earth, 1984) tra i più noti, si collocano in una dimensione rurale ed in un passato “astorico” (Storia del cinema asiatico. L’Estremo Oriente, Dario Tomasi, p.111). Queste pellicole prestano una grande attenzione alla composizione dell’immagine ed al colore, in modo da mostrare nel modo più efficace e potente possibile la potenza della natura e della tradizione, senza alcun intento didascalico. Anche i personaggi di queste storie si pongono in opposizione agli eroi del cinema maoista: nel cinema della quinta generazione cinese non c’è spazio per un personaggio come Liu Hulan (l’eroina elogiata da Mao in persona e protagonista dell’omonimo film di Feng Bai-lu, che abbiamo già incontrato in passato) ma solo per personaggi comuni, alle volte anche contraddittori. Negli anni ’80, in Cina, comincia a nascere un interesse neo-tradizionalista, che cercava di riscoprire le tradizioni del Paese non filtrate dalla retorica del regime maoista, ed è proprio in questa corrente, che coinvolge numerose espressioni artistiche, che si collocano i film di quinta generazione, primo tra i quali il debutto di Chen Kaige, Yellow Earth, fotografato da Zhang Yimou. Anche Tian Zhuangzhuang, con il proprio cinema, si muove alla scoperta delle tradizioni cinesi, rivolgendo il proprio interesse, però, alle minoranze etniche: così, nel 1985, esegue un ritratto delle popolazioni della Mongolia interna, con il film On the hunting ground (Lièchǎng zhā sā), mentre nel 1986 si dedica alla comunità tibetana con The horse thief.

“The horse thief” di Tian Zhuangzhuang.

Il cinema di Tian si limita a ritrarre le minoranze etniche senza alcun filtro pregiudizioso, “scevro da ogni edulcorato folclorismo. Evita, inoltre, ogni atteggiamento di condanna nei confronti di riti religiosi che al contrario si limita a osservare con grande rispetto” (Ivi. p. 114). Al suo debutto da regista, Zhang Yimou è già una delle figure di spicco del nuovo cinema cinese, grazie alle sue straordinarie qualità da direttore della fotografia (ha fotografato il già citato Yellow earth e The big parade, Dà Yuèbīng, entrambi di Chen Kaige, oltre a diversi altri film chiave della quinta generazione) e da attore, avendo interpretato il protagonista di The old well (Lǎo jǐng) di Wu Tianming, 1986. Sorgo rosso, primo film da regista di Zhang, si coniuga secondo stilemi molto simili a quelli già menzionati per Tiang, risultando, però, ancor più in contrapposizione con il cinema del passato per via dell’”accentuata rappresentazione del desiderio individuale, in particolare quello sessuale” (ivi. p. 117). Zhang veicola il suo desiderio di rottura con gli schemi del cinema maoista anche grazie a espedienti che il regista attinge dal cinema occidentale, come l’uso di primi piani e il grande numero di riferimenti al western. Tuttavia, Zhang sceglie di mitigare la propria posizione di rottura con il passato facendo ricorso a due tòpoi narrativi proprio del cinema della rivoluzione: la protagonista del film, per certi aspetti poco eroica, infatti, si pone a capo della distilleria attorno alla quale ruota il film rendendola “una sorta di comune, senza più gerarchie e con una divisione collettiva dei profitti”, da un lato, e dall’altro si erge a paladina del popolo, combattendo contro l’invasore giapponese.

CAPITOLO 7.3. HONG KONG

Ad Hong Kong, alla fine degli anni ’70, la situazione non è delle più rosee. Dopo la vittoria, nel 1975, del Grand Prix tecnico di A touch of zen di King Hu al festival di Cannes, ci si poteva aspettare un’espansione del cinema hongkongese nel mondo. Tuttavia, così non è stato ed è stato etichettato dagli studiosi europei come “esclusivamente di genere e di massa, nonché (per un pregiudizio non esente da razzismo) di bassa qualità” (Cinema di Hong Kong, Alberto Pezzotta, in Storia del cinema mondiale volume IV, p. 842), nonostante un breve periodo di interesse suscitato da una nuova generazione di registi, denominata New Wave. Molti di questi giovani cineasti, alcuni dei quali son nati o hanno studiato all’estero, come Tsui Hark e Ann Hui, hanno esordito in televisione, mostrando nei loro telefilm il lato cupo e violento, e spesso ignorato dal cinema, di Hong Kong. Dopo i primi esperimenti televisivi, che si collocano tra il realismo del cinéma-verité e la crudezza di generi come il noir ed il poliziesco, finalmente i registi approdano al cinema, introducendo pratiche innovative rispetto al cinema del passato, come l’utilizzo di troupe ridotte e le riprese in location reali, portando così il cinema all’aperto, lontano dai teatri di posa nei quali i film d’arti marziali dell’epoca d’oro del cinema hongkongese erano nati. I film di questa prima generazione della New Wave, purtroppo, non godono di grande successo, ad eccezione di Boat people (Tóubēn Nù Hăi, 1982) di Ann Hui. Questi insuccessi costringono i produttori, che inizialmente avevano dato carta bianca ai giovani cineasti, a porre i registi di fronte ad una duplice scelta: abbandonare la strada dei generi, per realizzare film meramente commerciali, oppure “il silenzio e l’isolamento, che è la sorte di Allen Fong e di Patrick Tam” (ivi. p. 843).

“We’re going to eat you” di Tsui Hark.

Nonostante poetiche assai eterogenee, la produzione filmica di questa prima generazione è tenuta insieme da un fil rouge, quello dell’atteggiamento dei registi nei confronti della realtà, un atteggiamento pragmatico che si traduce nella “franchezza nell’affrontare i temi” e in ritratti non edulcorati della città di Hong Kong. I film della New Wave, cercando sempre di mantenere un realismo di fondo, tendono a fondere spesso generi diversi: così possiamo vedere commedie horror come Xiǎojiě zhuàng dào guǐ (The spooky bunch, 1980) di Ann Hui e We’re going to eat you (Dìyù wú mén, 1980) di Tsui Hark, oppure film che sono al tempo stesso di genere e di denuncia, come The story of Woo Viet (Hú Yuè De Gù Shì, 1981) sempre di Ann Hui. Questa prima New Wave si consumerà nel giro di pochi anni, venendo sostituita ben presto da una seconda generazione, esemplificata nei nomi di Wong Kar-wai, Stanley Kwan e Fruit Chan, tra i più famosi. Nati come assistenti e sceneggiatori dei registi della prima generazione (Wong, per esempio, è stato sceneggiatore per Patrick Tam e Jeff Lau), riprendono da loro l’utilizzo della città come grande set all’aria aperta, mantenendosi però “in sospeso tra due mondi”, quello occidentale e quello orientale, poiché questa seconda New Wave si sviluppa nell’ambito di un importantissimo periodo storico per Hong Kong, quello durante il quale si chiude la dipendenza dalla Gran Bretagna per tornare alla madrepatria, la Cina. I film della nuova generazione mostrano una città senza passato e senza futuro, priva d’identità, caratteristiche perfettamente incarnate in Rouge (Yānzhī kòu, 1988) di Stanley Kwan, “storia di fantasmi senza effetti speciali e melodramma senza lacrime”, che gode di un buon successo commerciale.