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Il Signor Diavolo- Recensione

Pupi Avati è ritornato sul grande schermo con il suo Il Signor Diavolo, in cui domina la tradizione orale contadina emiliana, fatta di credenze e superstizioni. Un film dalla regia eccellente, ma anche da alcune sbavature di troppo.

Italia, 1952. Furio Momentè è un giovane funzionario incaricato di risolvere nell’assoluta segretezza una scottante questione accaduta in Veneto. In un paesino di campagna, il piccolo Carlo ha ucciso un coetaneo, nella convinzione di aver eliminato il diavolo dal suo corpo.

A causa dell’omicidio, la madre della vittima, che prima sosteneva la maggioranza, è passata all’opposizione nei confronti della Chiesa, dunque urge un intervento immediato. Man mano che il caso si delinea nella mente di Fulvio, l’uomo inizia a riflettere su una realtà ricca di pericolose credenze popolari.

Carlo, il piccolo omicida

Con Il Signor Diavolo, Pupi Avati  torna sul grande schermo con il suo amato gotico padano. Il regista aveva già introdotto il genere grazie a pellicole come “La casa dalle finestre che ridono” “Balsamus”, “Zedere”.

Si tratta di un genere ideato dal regista stesso, incentrato sullo scontro tra il sacro e il profano, usando l’ambientazione emiliana, ricca di fascino, mistero e antiche credenze popolari.

Sicuramente, per genere e fattura, la pellicola rientra in un’ottica vicina al cinema d’autore. Dunque per questa ragione, la fotografia e le inquadrature seguono un loro particolare percorso che contribuisce a dare all’ambientazione un’essenza tetra e inquietante. Infatti la forza de Il Signor Diavolo sta proprio nelle cupe atmosfere e nelle sensazioni di ansia che restituisce allo spettatore, grazie alle tecniche di regia.

Contribuiscono i silenzi e gli sguardi tra i personaggi, i cui volti sono pallidi, sudati e infossati. Sono uomini e donne risentiti dalla fatica della vita e del loro credo, solcati da occhiaie violacee, il cui aspetta genera inquietudine e a volte spavento.

Pupi Avati insegue i toni scuri catturandoli nel grandangolo, che dona alle inquadrature le atmosfere gotiche, legate al cinema d’autore, ricordando anche il vecchio espressionismo tedesco.  L’inquietudine si respira per tutta la pellicola, arrivando a sfociare in una sensazione di claustrofobia nell’incredibile finale del film.

 

Emilio, il figlio del male

Molto forte è la tematica legata allo scontro religione-ragione. Fulvio lascia Roma, città che, in quanto tale, dovrebbe essere simbolo di raziocinio e modernismo, per entrare in una realtà contadina dell’epoca, fatta di scaramanzie e timori del diavolo.

Basta avere un qualsiasi elemento diverso dalla “norma” per far si che la società ne associ il detentore al diavolo e, pertanto, egli risulta irrimediabilmente etichettato.

Arrivato nel piccolo paese veneto, il giovane Emilio è marchiato come un indemoniato, figlio di un rapporto sessuale malato tra sua madre e un maiale (animale vicino al diavolo). Noi spettatori lo osserviamo e ci sembra subito circondato da un’aurea malvagia, macchiata di atti blasfemi.

La chiesa, attraverso i preti del luogo, invita a prestare attenzione a questo soggetto malato. Dall’altra parte, la ragione, incarnata dagli investigatori e dallo stesso Fulvio, analizza la situazione diversamente. Il ragazzo è il risultato di problemi di salute e pratiche risolutive che  lo hanno reso “diverso” e rancoroso.

Dove si trova la verità? Sembra proprio che Avati lasci allo spettatore il compito di trovare una risposta. La direzione è una sola, la consapevolezza che non esista la reale responsabilità dell’uno, ma una responsabilità di massa.

Ben riuscito è il tentativo di mostrare la mentalità dell’Italia post bellica. Viene mostrato il timore popolare per ogni gesto che potrebbe offendere il Creatore. Nella scena fortemente simbolica in cui i bambini del paese prendono la loro Prima Comunione, un ragazzo fa cadere involontariamente l’ostia e la pesta. Il gesto è blasfemo, come se fosse stato calpestato il corpo di Cristo.

Nella chiesa cala un gelido silenzio, tutto si ferma, il timore è palpabile. Ciò che è accaduto, è un peccato punibile. Dovrà essere il prete a risolvere la situazione e l’unica soluzione è interrompere la funzione. La pellicola riesce a dosare bene le immagini evocative in tale senso, diffondendole nel corso della storia.

Fulvio

Il Signor Diavolo ha tanti pregi quanti anche difetti. Primo fra tutti una trama potenzialmente complessa e articolata che si scontra con una pellicola troppo breve (86 minuti circa) per contenerla adeguatamente e con un ritmo funzionale.

Tuttavia, in alcuni tratti,adeguatamente e con un ritmo funzionale ma, in alcuni tratti, troppo lento. Probabilmente sarebbero stati necessari diversi minuti in più per narrare meglio gli antefatti e dare maggiori spiegazioni e il risultato sono alcuni buchi nella trama.

Inoltre la love story tra due personaggi del film, appare forzata e decisamente debole. Non ha alcun legame con la trama principale. Spiega sicuramente la psicologia del protagonista, ma nonostante ciò, essa non si colloca in alcuna posizione importante.

Forse la ragione è da ricollegarsi al fatto che la storia nasca senza una reale spinta o motivo. Di conseguenza, aggiungendo poco o nulla alla trama, essa diventa inutile

Elemento a sfavore anche quello legato all’interazione dei personaggi. La recitazione ha quasi sempre livelli abbastanza elevati, il problema è il modo in cui i personaggi entrano i contatto e come i dialoghi stessi si alternino.

Spesso vengono a mancare le classiche pause e gli intercalare che caratterizzano il parlare comune. In molte sequenza del film, assistiamo a personaggi che parlano alternandosi in un ” botta e risposta”, con brusche interruzioni e cambi scena. Questa scelta conferisce poco realismo al tutto.

 

Chiara Caselli nei panni di Clara Vestri Musy

 

Il Signor Diavolo nonostante i diversi punti a sfavore, rimane una pellicola da recuperare.
Non è mai tardi per vedere un film di Pupi Avati.

Articolo a cura di Lagertha