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She’s gotta have it – Recensione

1986. Spike Lee produce e dirige Nola Darling (storpiato in Lola Darling in italiano), che si può considerare il suo vero esordio in un lungometraggio.
Il film è una commedia sofisticata con scene sexy, e racconta di una ragazza afroamericana indipendente che si divide fra tre amanti.
Un film con una protagonista afroamericana a quei tempi era una novità quasi assoluta, dato che era stato preceduto solo da Steven Spielberg.
Nola Darling non ottenne un gran successo di critica negli Stati Uniti, ma il New York Times definì Spike Lee il Woody Allen nero.

1986. Il nostro Allen nero presenta il suo nuovo/vecchio progetto a vari networks incluso il gigante dello streaming, Netflix, che accentando ha ricevuto spavaldi complimenti dallo stesso regista:

“È questione di cultura. Semplicemente, gli altri non ci sono arrivati. É sempre così.”

La trama di She’s gotta have it è quasi del tutto simile a quella che hanno trasmesso sul grande schermo ma si dilunga più sulla vita della giovane protagonista, Nola, interpretata da una bellissima  DeWanda Wise, alle prese con i suoi tre spasimanti o amanti, completamente diversi ma complementari.
Jamie Overstreet  (Lyriq Bent), consulente finanziario, maturo, protettivo, sposato e quasi separato ma un po’ noioso; Greer Childs (Cleo Anthony), modello e fotografo, vanitoso  e narcisista all’ennesima potenza; Mars Blackmon (Anthony Ramos), hipster, divertente, spiritoso e volgarmente liberatorio. Ma un’altra figura emerge e si fa spazio, Opal (Ilfenesh Hadera), donna e madre bellissima che mette in dubbio la sessualità di Nola, la quale non viene mai chiarita, in simbolo della libertà di questo nuovo secolo, che pochi in passato avevano il coraggio di mostrare.

Sullo sfondo della vita del quartiere, Fort Greene, emergono i temi dell’emancipazione femminile e del libero pensiero, della parità dei diritti e della tendenza maschile a considerare le donne come oggetti.
E’ il territorio migliore in cui da sempre si misura Spike Lee, quello delle contraddizioni che si scontrano tra di loro tramite le perone che le incarnano.
Desideri diversi, esigenze diverse, persone e razze diverse che devono convivere e trovare un’armonia.

L’arte che emerge dalla personalità di Nola viene messa in importanza grazie anche alle storie personali delle sue amiche e dei genitori, artisti da tutta la vita che l’hanno cresciuta a pane e musica: parola chiave della serie.
I versi rap che compaiono in sovrimpressione, la colonna sonora illustrata attraverso le copertine degli album e il sound tipico di Brooklyn accompagnano la vita di Nola più che le stesse persone con cui si relaziona.
Spike ha anche rimesso mano alla colonna sonora che è diventata un vero e proprio campionario di musica nera degli ultimi anni: da Jorja Smith a Tyler the Creator, passando per 6Lack, Syd e Bryson Tiller.

L’unica pecca della serie è forse l’immaturità della protagonista, che viene messa in evidenza dalle stesse puntate: autoreferenziali e piegate su ideali del regista che però non vengono spiegati o messi in questione ma cavalcati come se fossero già condivisi da tutto il pubblico.
Insomma, forse un po’ troppo audace.

 

Recensione a cura di Federica Gandolfo