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Selfie, storia di un’utopia riuscita – La recensione

Il sociologo Edgar Morin nel 1960 coniò il termine cinema verità, delineando un cinema di autenticità che supera la finzione: vero come un documentario, ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva.
Oggi, Agostino Ferrente fa suo questo concetto assumendosi una grande responsabilità, perché come dice il documentarista di Selfie, presente in sala al Rouge et Noir di Palermo:

“Nei film di finzione i personaggi sono inventati, congelati nella pellicola; nel documentario, invece, i personaggi prima di essere protagonisti sono persone e, a differenza dei film, la loro vita va oltre i titoli di coda.
Noi affibbiamo loro un marchio, dunque non possiamo danneggiarli”.

Nel mondo contemporaneo il mezzo principale di comunicazione che abbraccia intere generazioni è lo smartphone, come viene confermato all’inizio di Selfie, girato nella rovente estate del 2017, quando Ferrente si rivolge ad uno dei sedicenni, domandandogli:

-“Sai usare la telecamera?”
-“No”.
“Allora meglio il cellulare?”
-“Sì”.

Da questa conversazione prende avvio un’opera interamente filmata dagli adolescenti del Rione Traiano per mezzo di un cellulare: oggetto alla portata di tutti e di cui i due personaggi hanno una certa maestria nell’uso da poter filmare senza filtri la loro vita di ogni giorno.

Ma andiamo più in fondo.
Chi sono Alessandro e Pietro?

Alessandro e Pietro sono due adolescenti apparentemente come tanti che incontriamo ogni giorno nei bar e sulle strade della nostra città: Alessandro ha lasciato la scuola dopo una lite con l’insegnante, la quale pretendeva che imparasse L’Infinito di Leopardi a memoria e oggi lavora in un bar che non gli permette di andare in vacanza, ma sicuramente di condurre una vita onesta, specie in un quartiere come Rione Traiano dove sembra mancare tutto: Stato, scuola, futuro.
Pietro, invece, ha frequentato una scuola per parrucchieri ma al momento nessuno lo prende con sé e, pur potendosi godere le vacanze estive, ha deciso di passare l’estate al Rione per fare compagnia al suo grande amico perché gli amici non si abbandonano.

Si, perché Selfie non è un’inchiesta, ma la storia di una grande amicizia cresciuta sempre più dopo la perdita di un coetaneo, Davide Bifolco, ucciso accidentalmente nel 2014 da un carabiniere perché scambiato per un latitante.
Ma la storia di questa grande amicizia è accomunata anche dai due caratteri dei protagonisti, così diversi ma al contempo complementari.
Alessandro infatti preferirebbe filmare ciò che di bello può ancora oggi offrire il sobborgo, come il valore del vivere secondo onestà.
Pietro invece propende per una scelta radicale e non si arresta a ciò che di brutto viene ogni giorno scritto dalla stampa sul Rione  Traiano, ma vuole andare ancora più in fondo riprendendo senza filtri ed abbattendo gli stereotipi, descrivendo così una Napoli piena di umanità e che sa ancora reagire.

Così, con la costante guida del regista, i due ragazzi diventano registi della loro vita, riprendendosi e nello stesso tempo riprendendo ciò che è dietro di loro, gettando metaforicamente uno sguardo sul presente e sul passato, ma mai verso un futuro, creando  un film sugli occhi che vedono e non su ciò che vedono, alternato con le fredde immagini delle telecamere comunali che sorvegliano indifferenti la realtà.
Ferrente con questo esperimento decide di non volgere più lo sguardo sulla bellezza decadente e maledetta di Napoli che ormai è entrata nel patrimonio dell’immaginario collettivo, ma sugli occhi fragili e profondi di chi guarda.
E il risultato è un’utopia riuscita.

Si muore per stigma sociale, si vive dietro muri fatiscenti, ma in questa realtà Leopardi vive e noi oggi, ci auguriamo che i Pietro ed Alessandro di tutti i Rioni Traiano del mondo un giorno riusciranno a scorgere quell’ Infinito “oltre la siepe”.

 Articolo a cura di Federica Vinciguerra