Home Rubriche Oriente Realismo stilistico ed onirismo narrativo: Ringu di Hideo Nakata

Realismo stilistico ed onirismo narrativo: Ringu di Hideo Nakata

Cos’è la paura? Cos’è il cinema horror? Per trovare una risposta a queste semplicissimi domande, basta vedere un film che è diventato un vero e proprio fenomeno di culto in Giappone e non solo, dal quale sono nate numerose opere derivate, tra remake, sequel, videogames e quant’altro. Ringu di Hideo Nakata è la perfetta definizione di cosa il cinema horror dovrebbe essere. Niente jumpscares, niente facce mostruose. Pura atmosfera, tensione e sensazioni negative che perseguitano lo spettatore anche dopo i titoli di coda. Questo e molto altro è Ringu, una delle opere fondamentali del cosiddetto J-horror.

La storia è arcinota: una videocassetta assassina che uccide dopo sette giorni chi la guarda, una giornalista che vuole svelare il mistero che circonda questo video, un vecchio omicidio di una bambina, Sadako. Hideo Nakata riesce a creare tensione per oltre 90 minuti senza il bisogno di ricorrere ai soliti mezzucci abusati dalle grandi produzioni horror: le scene puramente horror sono ridotte al minimo indispensabile, non vediamo mai in faccia il mostro che tormenta i personaggi, le nostre orecchie non vengono (quasi) mai stuprate dall’improvviso aumento del volume della musica. Ringu non è un film che punta a spaventare lo spettatore ma a privarlo della pace e della tranquillità quotidiana: non pensate, dopo aver finito di vederlo, di poter ridere e scherzare come se nulla fosse stato. L’atmosfera d’inquietudine che permea la pellicola squarcia la barriera che delimita la nostra zona di comfort, lo schermo, per iniziare a tormentarci, accompagnandoci per diverse ore dopo la fine della visione del film.

Sadako nel video assassino.

Nakata esegue un labor limae registico: la macchina da presa è spesso immobile, si concede pochissimi (e ridotti) movimenti, limitati a qualche carrellata e panoramica; la fotografia di Jun’ichiro Hayashi evita ogni espressione artistica, non si trova nessun gioco di luci, l’illuminazione è cruda, scarna, realistica. Tutto il film è realizzato con un lapidario realismo. E, probabilmente, è proprio questo la forza principale di Ringu, il suo stile così minimalista colpisce lo spettatore con crudeltà, impietosamente. Nakata nasconde tanto, quasi tutto, lavora ad un livello inconscio, facendo sì che sia lo spettatore stesso il veicolo della paura, non solo la vittima: noi non vediamo e immaginiamo e, immaginando, proviamo paura. Una versione un po’ distorta dell’Infinito di Leopardi, noi “nel pensier ci fingiamo, ove per poco il cor non si spaura”. Ma, mentre nella filosofia del poeta recanatese, l’immaginazione è veicolo di piacere, nel caso di Ringu ciò che proiettiamo nella nostra mente diventa il seme della paura che cresce a poco a poco dentro di noi.

Altro elemento fondamentale ai fini dell’angoscia, oltre al non visto, è il non spiegato. La sceneggiatura è spesso poco chiara, alcuni passaggi sono inspiegati ed inspiegabili, volutamente criptici, e spingono lo spettatore a porsi domande, costringendolo ad una pressoché totale immersione nella trama oscura; anche il video assassino, formato da scene sconnesse, prive di logica, è, proprio questa sua natura quasi non-sense, di forte impatto e quasi impossibile da dimenticare. Il pozzo, l’uomo che indica, Sadako che cammina, con i capelli neri che le coprono il viso.

Ringu non è affatto un film gradevole, è un’esperienza negativa. Esattamente come un film horror dovrebbe essere. È un film lento, dal ritmo funebre, una tortura psicologica in cui ogni inquadratura è una frustata che lascia il segno. Un’opera in cui crudo realismo stilistico e oscuro onirismo narrativo ed atmosferico si fondono in un diamante nero, un quasi capolavoro imprescindibile per tutti gli amanti dell’horror nipponico e non.

 

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