Home Rubriche Outsider Ratcatcher: l’Acchiappatopi (1999)

Ratcatcher: l’Acchiappatopi (1999)

La prima scena del film è già una lucida ed evocativa introduzione al cuore esegetico della pellicola. C’è un bambino avvolto in una tenda, contro luce, metaforicamente crisalide nello sviluppo post embrionale dall’infanzia all’età adulta. La pupa dentro la quale prendono forma i primi cambiamenti fisici, cognitivi e morali. Un ossessivo slow motion dalle vaghe atmosfere lynchiane, interrotto bruscamente dallo scappellotto materno. Ma è tutta una premonizione. Non è lui il protagonista, ma avrebbe potuto esserlo.

Per la sua prima prova in un lungometraggio la regista scozzese Lynne Ramsay sceglie un’ambientazione a lei cara.

Sobborghi di Glasgow. Anni ’70. James Gillespie (William Eadie) è un ragazzo di 12 anni che ha visto il suo migliore amico annegare nel canale di scolo. Ha un pessimo rapporto con il padre ubriaco e violento e vive la sua estate di periferia scansando sacchi di immondizia e i topi che invadono la città. Poi qualcosa sembra cambiare. Conosce infatti Margaret, una ragazza poco più grande di lui, vittima del bullismo e della violenza fisica e sessuale dei suoi coetanei.

Il misterioso universo dei ragazzini e il loro coming age è di certo una comfort zone tematica cara alla regista scozzese che riprenderà il discorso bruscamente interrotto in Ratcatcher anche nei successivi “…e ora parliamo di Kevin” e A Beautiful Day.

La pellicola è una risposta “scots” a film come I 400 colpi o forse anche Stand By Me, nel modo in cui mette a confronto l’infanzia con la caducità dell’esistenza. La pellicola è però priva di una risoluzione definitiva o di un finale vagamente consolatorio. Un trait d’union tra un forte realismo loachiano, in particolare Kes del 1969 e Sweet Sixteen del 2002 e un approccio stilistico più lirico ed evocativo sulla falsa riga di Emir Kusturica. La scena in cui un topolino viene sparato in orbita dopo averlo agganciato a un palloncino è un esempio calzante di come l’autrice riesca ad affrancarsi dall’isolamento apocalittico e dalla miseria quotidiana in cui vivono i suoi personaggi.

Non c’è speranza.

Per James c’è solo la fuga. La sperimenta giusto per un momento, quando il ragazzo sale sull’autobus e la Ramsay ci fa ascoltare il delicato ed etereo arpeggio di “Cello Song” di Nick Drake. Barlumi di felicità che l’autrice e sceneggiatrice sottolinea con questa o quella canzone. Come quando James si rotola nel grano o nel ballo con la madre. Ma è sempre e solo un’illusione, dietro l’angolo c’è sempre la miseria, la sporcizia, i pidocchi, il sudiciume socio culturale. Degrado urbano ai margini di una società di reietti.

E allora si, l’unica via di fuga è proprio quel pericoloso canale di scolo, dove tutto ha fine. La catarsi di una vita nuova ma impossibile nell’onirico sorriso di James.

Ma quella iniziale, ahimè, era proprio una premonizione.