Home Rubriche Outsider Il paesaggio desolato dove tutto fu perduto: Sátántangó di Béla Tarr (1994)

Il paesaggio desolato dove tutto fu perduto: Sátántangó di Béla Tarr (1994)

Quattrocentotrentacinque minuti sembrano un’eternità, più o meno la durata di una giornata scolastica media. Io, quando andavo al liceo classico, facevo sei ore (trecentosessanta minuti) di lezione solo due giorni alla settimana, mentre i restanti quattro erano di cinque ore (trecento minuti). Giusto per dare delle coordinate temporali che aiutino a definire i quattrocentotrentacinque minuti di durata di questo colosso cinematografico. Sátántangó non è semplicemente un film. L’etichetta di “film” gli va stretta, come va stretta a pochissime manciate di opere d’arte cinematografiche nella storia. È un’esperienza unica nel suo genere, alla quale forse soltanto il cinema di Lav Diaz e magari di pochissimi altri registi meno conosciuti, mutatis mutandis, si avvicina; un’esperienza che potrebbe spaventare anche il più intrepido dei cinefili medi (“cinefilo medio” non è inteso in senso spregiativo, sia chiaro), data la portata mastodontica di questo film, il cui ostacolo principale è, oltre la durata non indifferente, la lingua, non essendo mai stato doppiato in italiano e dovendo, quindi, vederlo in ungherese sottotitolato. Questa opera d’arte firmata Béla Tarr, tuttavia, è come una prova di coraggio uscita da un celebre programma di Paolo Bonolis (vi prego di perdonare l’iperblasfemo paragone): qualcosa che inizialmente spaventa ma che, una volta concluso, lascia una soddisfazione inenarrabile ed indimenticabile. Un film, se vogliamo accontentarci di questa definizione sminuente, che va visto almeno una volta nella vita, per lasciarsi turbare dalla sua magnificente bellezza.

Il dramma è la vita con le parti noiose tagliate”, affermò una volta sir Alfred Hitchcock. Il cinema di Béla Tarr e lo stesso Sátántangó contemplano anche (e, forse, soprattutto) le parti noiose. La trama è estremamente semplice e per raccontarla sarebbero bastate molte meno ore di quelle impiegate dal regista magiaro, se si fossero tagliate quelle parti noiose: siamo alla fine del comunismo in Ungheria, un complesso agricolo è al collasso. Qualche manciata di personaggi che in questa fattoria collettiva lavorano sta programmando di andarsene con i soldi guadagnati dalla chiusura del complesso. Nel frattempo, un uomo scomparso un paio d’anni prima, Irimiàs, sta tornando, insieme ad un certo Petrina. Quando il piccolo villaggio viene a conoscenza di questa notizia, gli abitanti dovranno far fronte alle conseguenze del suo ritorno e, una volta tornato, Irimiàs farà una proposta a tutti i lavoratori, chiedendo loro di cedere tutti i propri risparmi per iniziare una nuova vita. La storia meno epica possibile assume una connotazione quasi epica, grazie ad una dilatazione dei tempi narrativi, con segmenti cronologici che a tratti si intrecciano ed inseguono, danzando come ballerini di tango, e alla regia così ricca e minimale, fatta di piani sequenza che a volte sembrano sfiorare l’eternità, come quello della bellissima quanto fondamentale scena del ballo al bar, durante i quali la macchina da presa alterna stasi e movimento (che talvolta paiono immobili per la loro lentezza), o quello incipitario, uno dei punti più alti ed intensi, seppur estremamente semplici, dell’intero film. Un’unica inquadratura di circa 9 minuti in cui vediamo delle mucche uscire dalla stalla, unica colonna sonora è il loro muggito, la camera che si sposta lateralmente, riprendendo per diverso tempo anche dei muri sporchi e con l’intonaco rovinato: non esiste narrazione, non esiste azione, esiste solo il Vero.

La bellissima sequenza iniziale di Sátántangó.

 Il montaggio viene minimizzato e la sua grammatica viene adombrata dalla magniloquenza della regia, che spesso si sofferma su quadri vuoti, senza personaggi e senza azione. I raccordi di montaggio, in particolare quelli di movimento, non sembrano essere contemplati dal cinema di Tarr: l’azione iniziata in un’inquadratura difficilmente si concluderà nell’inquadratura seguente ma si esaurirà all’interno dello stesso quadro e, anzi, una volta conclusa la macchina da presa inquadrerà un campo vuoto per qualche secondo. Fondamentale, tanto nel cinema tarriano in generale quanto in Sátántangó, è il ruolo ricoperto dal fuori campo: moltissimi dialoghi si sviluppano lontani dall’obbiettivo della macchina da presa, spesso dei personaggi escono dal campo per rientrarvi qualche secondo (o minuto) più tardi, senza che allo spettatore sia permesso di vedere. In questo modo, veniamo violentemente trascinati all’interno del film, come se fossimo un personaggio della pellicola, impossibilitati a seguire le azioni e i dialoghi di tutti i personaggi.

Estike e il gatto: una delle scene più angoscianti di tutto Sátántangó.

Gli Arcturus, gruppo metal che adoro, nella canzone Demon Painter (che potete ascoltare cliccando qui) cantano dei versi che descrivono alla perfezione l’atmosfera che si respira in Sátántangó (lungi da me il stabilire collegamenti diretti tra le due opere): “I paint in tones of grey, in shades of black, in cold dismay. […] In a barren landscape where all was lost”; dipingo in toni di grigio, in sfumature di nero, in freddo sgomento. […] In un paesaggio desolato dove tutto fu perduto. Sembrano versi scritti dallo stesso Béla Tarr e rispecchiano molto bene l’estetica di questo capolavoro senza tempo. I toni di grigio della pellicola dipingono una realtà deprimente nella quale non esistono gioie, gli unici momenti spensierati sono quelli offuscati dall’alcool. I volti dei personaggi sono sempre coperti da un velo di tristezza, specchio della loro miseria. L’umanità ormai non ha più nulla per cui gioire, la filmografia di Béla Tarr parla chiaro: pensiamo a, per esempio, Le armonie di Werckmeister ed Il cavallo di Torino, nei quali, specialmente nel primo dei due, assistiamo ad un’umanità prossima all’estinzione, dei vasi di carne senz’anima. Assistiamo allo stesso ritratto del’essere umano anche in Sátántangó, le persone non fanno altro che camminare ed ubriacarsi, parlare senza dire nulla ed esercitare la propria forza di sopraffazione su altre persone o animali (memorabile, in questo senso, la scena angosciante della bambina, Estike, e del gatto). Sátántangó è a tutti gli effetti un paesaggio desolato dove tutto fu perduto.

L’umanità di Sátántangó è senza speranza.