Home Rubriche Horror Il mostro di St. Pauli – Diario del serial killer di Amburgo

Il mostro di St. Pauli – Diario del serial killer di Amburgo

Amburgo, 15 luglio 1975. Quartiere di St. Pauli. I pompieri impegnati a domare le fiamme di un appartamento, fanno una macabra scoperta.

Nel sottoscala dell’edificio sono ammassati i resti dei corpi di alcune donne. La polizia tedesca arresta Fritz Honka che confessa l’omicidio di quattro donne, tra il 1970 e il 1975.

Questi i fatti. Questo lo spunto del nuovo film del regista Fatih Akin che ad Amburgo c’è nato proprio negli anni in cui è ambientata la vicenda del mostro di St. Pauli.

Fritz Honka (Jonas Dassler) è un manovale non qualificato, un uomo deforme, dai modi bruschi e spesso violenti, un alcolista come tanti che frequenta il bar Zum Goldenen Handschuh. Il posto è un luogo di ritrovo per bevitori abituali e prostitute. Qui Fritz adesca donne, per lo più anziane per portarsele a letto. A volte però la situazione gli sfugge di mano e la violenza sembra essere frutto di impotenza sessuale e desiderio represso per una giovane e bellissima fanciulla del posto (Greta Sophie Schmidt).

La prima osservazione da fare e anche il più evidente merito di questo film è l’impressionante mimesi fisica del protagonista.

La permormance del bravo Jonas Dassler, attore visto di recente a Venezia in Opera Senza Autore di Florian Henckel von Donnersmarck, lascia senza parole.

Ma c’è dell’altro.

Il mostro di St. Pauli similmente a The House That Jack Built è un film respingente, fastidioso, censurabile e a tratti anche esibizionista.

Fatih Akin a differenza di Von Trier non sembra interessato a sovrastrutture, allegorie e metafore esistenziali. Il suo dramma/horror mira a scandalizzare lo spettatore per fini sociali più che stilistici. L’ambiente malsano in cui si muove Honka, il tessuto socioculturale squallido e ammuffito, i personaggi decadenti, nauseabondi che a volte vengono appena accennati dall’autore, fanno parte di un affresco orrido, deforme eppure perfettamente a fuoco.

I toni usati da Akin sorprendono, perché inediti nella filmografia del regista (La sposa turca, Soul Kitchen, Oltre la notte). Il regista mette in scena un horror da camera grottesco e granguignolesco, molto lontano dalla malvagità patinata dei classici serial killer movie americani. Un kammerspiel orrorifico e claustrofobico a suo modo unico nel suo genere perché più interessato all’esteriorità del carnefice che all’interiorità della sua psiche.

Il “lato oscuro del proletariato fassbinderiano” ridotto a nauseabondo tanfo di corpi in putrefazione.