Home Rubriche Outsider La memoria di un lenzuolo: A Ghost Story di David Lowery

La memoria di un lenzuolo: A Ghost Story di David Lowery

A Ghost Story è uno di quei film spartiacque che raramente capita di vedere, soprattutto in questi anni e, ancor più soprattutto, nel cinema americano di questi ultimi anni. Già ora, non molti mesi dopo la sua uscita al cinema, si può parlare di un “prima A Ghost Story” e, probabilmente, entro non molto tempo esisterà anche un “dopo A Ghost Story”, come si addice ad un autentico capolavoro. I suoi circa 90 minuti di durata sono una costante sorpresa ed un flusso ininterrotto di stimoli nuovi che affascinano e seducono, emozionano e sconvolgono. Si tratta di un film profondamente orientale, il regista David Lowery ammicca costantemente ai grandi nomi del cinema asiatico, contemporaneo e non: piani-sequenza a camera fissa in puro stile Tsai Ming-liang, silenzi eloquenti come quelli di Kim Ki-duk, la sensibilità “umanistica” di Kenji Mizoguchi; un amante del cinema orientale come il sottoscritto non può rimanere indifferente davanti ad un tale tsunami di omaggi al cinema asiatico.

La storia è assai semplice ma anche estremamente articolata, almeno in potenza: una coppia si sta per trasferire, quando lui (Casey Affleck) muore in un incidente stradale. Da quel momento, tornerà nella sua casa sotto forma di fantasma ed assisterà, come uno spettatore cinematografico, a tutto ciò che entro quelle mura avverrà. Sarà il testimone invisibile (ma visibilissimo agli occhi onniscienti del pubblico) dello scorrere del tempo, coinquilino costretto di famiglie a lui estranee, partecipante involontario di feste. Ancorato alla memoria e alla storia avuta con la moglie (Rooney Mara), il lenzuolo-fantasma di Casey Affleck rimane disperatamente attaccato ad un “souvenir” che la donna ha lasciato nella casa, un fogliettino nascosto nel legno dello stipite di una porta, che il fantasma tenterà costantemente di recuperare. Chissà cosa c’era scritto. Non lo sapremo mai.

La delicatezza: Rooney Mara sfiora il fantasma del defunto marito.

Il tempo di A Ghost Story è una molla ed assistiamo, estasiati ed intimoriti come bimbi dinnanzi ad un dinosauro, al suo svolgersi spiraloide: come una molla, il tempo ha un inizio ed una fine ma non è lineare, il passato segue il futuro per poi fluire in un presente già visto ma con uno sguardo differente, esterno; e come una molla si espande e si comprime, così la narrazione di questo gioiello ha momenti di estrema dilatazione, come la bellissima scena in cui Rooney Mara mangia una torta, ripresa con due bellissimi long shots immobili, in pieno stile Tsai Ming-liang (seppur non in modo così estremo, nella durata, come quello del regista malese-taiwanese), e di immediata velocità, con mesi, se non addirittura anni, che trascorrono nell’arco di tempo occupato da un taglio di montaggio (si veda la scena della decomposizione dei corpi, che introduce l’ultima parte del film). I dialoghi, come in un film di Kim Ki-duk, sono ridotti al minimo e quasi tutti sono superficiali e banali, mentre pochissimi altri, come il monologo del party, sono densi e profondi e non possono non meravigliare chi guarda il film.

E sono sempre la memoria ed il ricordo ad essere protagonisti assoluti di qualsiasi azione vediamo e di qualsiasi dialogo o battuta udiamo o leggiamo: il biglietto lasciato a Rooney Mara dalla sorella; il fantasma della casa accanto, che non ricorda chi stia aspettando (geniale la scelta di far comunicare i lenzuoli-fantasmi solo per mezzo di sottotitoli, privandoli di qualsiasi fisicità che non sia quella del tessuto); il già citato monologo. Questa dimensione perenne della memoria viene anche rievocata nella bellissima scelta del formato del film, un 4:3 dagli angoli arrotondati, come diapositive di un vecchio viaggio che ogni tanto riguardiamo, ricordando i bei momenti vissuti durante quella vacanza indimenticabile. Lowery si dimostra rispettoso dei propri personaggi, li ama con un’immensa tenerezza e concede loro spazi che in ambito cinematografico raramente vengono concessi: se, sul finale di Vive l’Amour di Tsai Ming-liang assistiamo ad un lungo ed invadente (per il personaggio) piano-sequenza sul primo piano di una donna in lacrime, in A Ghost Story il dolore non viene mostrato se non da lontano, con quella delicatezza e quella sensibilità che appartengono a Kenji Mizoguchi. Nella scena dell’obitorio, ove è chiesto al personaggio della Mara di riconoscere il cadavere del marito, vediamo la donna ripresa in campo medio, da un’altra stanza, attraverso una porta aperta, non siamo lì con lei, non invadiamo lo spazio personale del dolore.

La bellissima scena dell’obitorio.

A Ghost Story non è un film che può passare inosservato agli attenti e severi occhi della storia del cinema, si tratta di un’opera così semplice ma al tempo stesso ricca e complessa che qualche segno nella memoria del pubblico lo lascia, inevitabilmente. Se è vero che il 2017 ha saputo regalare diversi film molto validi (Madre!, Blade Runner 2049, Shin Godzilla, ecc), è altrettanto vero che il 2017 ha avuto un solo film veramente memorabile, un solo vero capolavoro: A Ghost Story.