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Loveless – Cartoline da Mosca

Mosca. Giorni d’oggi. Boris e Ženja sono in procinto di divorziare. Un rapporto fallimentare nato quasi per sbaglio anni prima, dando alla luce il piccolo Alëša, oggi dodicenne in conflitto con i genitori. Sia il padre che la madre del ragazzino si sono già rifatti una famiglia, incuranti delle sofferenze interiori e implose dell’inquieto adolescente.

Un giorno Alëša sparisce senza lasciare traccia alcuna. Iniziano così le ricerche della polizia e quelle dei genitori, che sembrano essere più infastiditi da questo “contrattempo”, che veramente preoccupati.

L’impietosa anamnesi delle moderne famiglie disfunzionali come metafora della fatiscente Grande Madre Russia. E’ questa la chiave interpretativa della nuova pellicola del regista siberiano Andrej Petrovič Zvjagincev. Un pugno allo stomaco ben assestato e quando meno te lo aspetti. Il dramma della ricerca di un bambino tra i ruderi di una Russia chruščёviana che non esiste più. Ora ci sono solo le responsabilità genitoriali di esseri umani sempre più desensibilizzati dall’edonismo post moderno. Il sesto film di Zvjagincev non è un caso, ma una tappa significativa di un percorso artistico iniziato nel 2003, quando il regista trionfò a Venezia aggiudicandosi il Leone d’Oro con Il ritorno (Vozvraščenje). Film tragico, dentro e fuori la narrazione per la morte del giovane attore Vladimir Garin, accidentalmente affogando proprio nel lago Osinovsk, che era stato utilizzato per le riprese del film. Sembra un cerchio che si chiude.

14 anni dopo il regista ritorna sul tema.

La mise en scene dell’autore, alla seconda candidatura consecutiva ai premi Oscar, dopo il capolavoro del 2014 Leviathan, è ancora una volta algida e distaccata, perfetto “pendant” con il livido purgatorio del quartiere moscovita di Južnoe Tušino a nord ovest della Capitale.

Nel cinema di Zvjaginsev sono sempre i più deboli, come appunto il piccolo Aleksey, a pagare le conseguenze degli errori delle famiglie. Una spietata cronaca nichilista che va oltre le mura domestiche, affondando le unghie esegetiche nel tessuto sociale e politico. Il corpo in putrefazione della Russia putiniana. Zvjaginsev non accusa, ma allude. Non si fa beffa di nessuno, né pretende la testa dei responsabili. Semplicemente consegna ai posteri un affresco austero di ciò che i russi sono diventati.

Anche se il regista si concede talvolta alcune sacche narrative inconcludenti, la sceneggiatura, firmata insieme a Oleg Negin, mostra con nitore e senza compassionevoli licenze hollywoodiane, l’escalation empatica di Boris e Ženja. Almeno fino alla scena dell’obitorio, quando vengono chiamati a riconoscere un corpo che potrebbe corrispondere a quello del giovane figlio. Momento folgorante e finalmente emotivo, che arriva dopo 110 minuti di love-less e la quasi totale assenza di elementi sonori extradiegetici.

E allora la musica ce la mettiamo noi. C’è stata una band in Italia negli anni ’80. Si chiamavano i Diaframma e una delle loro più celebri canzoni (e album d’esordio) si chiama proprio Siberia.

Proprio come la regione di nascita di Zvjaginsev.

Il testo recita così:

“I nostri occhi impauriti, nelle stanze gelate, al chiarore del petrolio bruciato e oltre il muro il silenzio, oltre il muro, solo ghiaccio e silenzio.”

Recensione a cura di Giuseppe Silipo