“La quasi totalità della superficie terrestre era divenuta sterile e improduttiva, gli uomini si adattarono a vivere lunghi anni di crepuscolo”
“Nausicaä della Valle del vento” di Hayao Miyazaki.
Dopo lo splendido esordio con Storie di uomini e cavalli, il regista islandese Benedikt Erlingsson ci porta nuovamente nella sua amata terra. Presentata nella Settimana della critica a Cannes, “La donna elettrica” è una grottesca commedia ecologista per hipster democratici col senso di colpa per non aver fatto bene la differenziata. Ma questa è solo l’apparenza. Per fortuna c’è molto di più. La donna elettrica di Erlingsson, che in realtà nel titolo originale è piuttosto una “donna in guerra” è una single di 49 anni insegnante di canto. Il suo nome è Halla (Halldóra Geirharðsdóttir).
La donna però è anche un’ecoterrorista.
Munita di arco e frecce e mascherata da supereroe ambientalista, decide di sabotare un’enorme fabbrica di alluminio. Un’azienda che appartenente alla Corporation, a suo parere responsabile della distruzione della sua amata terra. Halla con le movenze di una novella Lara Croft, si aggira per la tundra islandese. Camuffandosi sotto il manto di muschio e pelli di animali, sotto le gelide acque dei ruscelli e in qualsiasi altra maniera la natura le permetta di sfuggire alla polizia. Ma le forze che il governo ha messo in moto per arrestarla le stanno col fiato sul collo. Lei non ha paura perché a parte una sorella gemella (interpretata sempre dalla bravissima Geirharðsdóttir), non ha nessuno ad attenderla a casa.
Proprio quando un drone riesce a scovarla, Erlingsson si diverte a citare 2001: Odissea nello spazio. Qui il regista replica la gestualità (ma anche l’inquadratura) con la quale la donna con un sasso (e la maschera di Mandela) distrugge quel maledetto oggetto. Simbolo della tecnologia che lei ripudia. Un processo inverso a quello dei primati kubrickiani, nella speranza di fare un passo indietro innanzi al baratro nel quale ci ha portati l’economia capitalista.
Erlingsson coniuga il cinema politico di Loach al socialismo grottesco di Kaurismäki, ma flirta anche con Roy Andersson, come ad esempio nell’uso della colonna sonora diegetica.
Elemento geniale di tutto il film infatti è una banda composta da tre musicisti e tre coriste. I loro suoni accompagnano le vicende di Halla e pian piano finiscono con interagire con la stessa donna che sembra rivolgersi ai musicisti per dettare i tempi tra commedia e azione, tra dramma e sentimento. Quel sentimento che non è solo heimat per la propria terra, ma anche quella struggente decisione che Halla dovrà affrontare quando inaspettatamente, riceverà la notizia che una piccola bimba ucraina orfana è in attesa di essere adottata.
Come First Reformed di Paul Schrader o Submergence di Wim Wenders, ma in maniera cinematograficamente meno ostile “La donna elettrica” pone al centro il nostro pianeta.
Basandosi sull’assunto che la natura in tutte le sue componenti si mantenga in equilibrio grazie al comportamento degli organismi viventi. Proprio quell’Ipotesi di Gaia che aveva ispirato la Nausicaä di Miyazaki.