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Kate (2021) – La Recensione

Kate (Mary Elizabeth Winstead) è un’assassina ed infallibile cecchino che elimina gli obiettivi scelti dal suo fidato mentore Varrick (Woody Harrelson).

Dopo essere rimasta orfana da bambina, Varrick l’ha allevata come una figura paterna crescendola come una spietata arma letale. Nel corso di un’operazione in quel di Osaka, Kate si trova costretta a sparare ad un uomo, di fronte alla di lui figlia adolescente, risvegliando la coscienza assopita di Kate.

Senza spiegare troppo della trama, Kate si trova catapultata nel sottobosco del crimine organizzato giapponese a cercar vendetta da chi le ha procurato un’acuta intossicazione da radiazioni causata dal Polonio 204. Insieme a lei la giovane e petulante Ani (Miku Martineau) nipote del famoso boss della criminalità giapponese Kijima. Un’ultima missione, con un’inarrestabile countdown, tra le vie e i neon di Osaka e qualche rinfrescante Boom boom lemon.

Diretto da Cedric Nicolas-Troyan (nel suo curriculum solo poche e imbarazzanti cose) Kate è un classico, anzi classicissimo revenge movie ma in salsa yakuza. Quindi se state girovagando su Netflix e vi trovate davanti a questo titolo in cerca di qualcosa di originale, beh allora meglio cambiare programma perché in effetti Kate è uno dei prodotti più derivativi visti negli ultimi anni.

Da Leon a Nikita, da Wasabi a Kill Bill, da Crank fino al recentissimo Gunpowder Milkshake, Kate attinge e rubacchia qui e là, ma nonostante tutto lo fa con stile.

Gli autori alleggeriscono (in effetti anche troppo) tutto l’impianto narrativo ed emotivo della pellicola, lasciando che una splendida Mary Elizabeth Winstead sfoggiare un look-bomba, tra coreografie spettacolari e una spruzzata (è il caso di dirlo) di inaspettata violenza granguignolesca. L’attrice è il 90% del film, bella brava, cool come ai tempi di Ramona Victoria Flowers in Scott Pilgrim vs. the World. Al suo fianco un cast giapponese da Tadanobu Asano (Thor, Ichi The Killer) a Jun Kunimura (Black Rain, Kill Bill) fino alla j-pop star Miyavi (imbalsamatissimo e già visto in Kong: Skull Island e Maleficent).

Finale prevedibile, ma epico che ambisce all’ineluttabile destino di molte delle povere anime raccontate da Takeshi Kitano.

Insomma un film già visto che lamenta in fase di scrittura quel qualcosa che avrebbe permesso lo step oltre il puro consumo e l’intrattenimento adolescenziale, oltre la perfetta serata pop corn e botte da orbi.