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JAMovie incontra la sceneggiatrice e autrice Alessia Vegro

Oggi su JAMovie vi proponiamo l’intervista fatta da Andrea Giostra alla sceneggiatrice e autrice Alessia Vegro.

“Sono una ragazza che da sempre ama scrivere e che all’università ha scoperto che il suo cuore è equamente diviso tra scrittura e cinema”

 

Ciao Alessia, benvenuta e grazie per la tua disponibilità. Se volessi presentarti ai nostri lettori cosa racconteresti di te quale artista della settima arte?

Ciao Andrea e grazie a te per dedicarmi il tuo prezioso tempo. Ohhh… direi che non sono un’artista, solo una ragazza che da sempre ama scrivere e che all’università ha scoperto che il suo cuore è equamente diviso tra scrittura e cinema. Da questa presa di coscienza alla decisione di provare a diventare sceneggiatrice è stato un attimo. E quando per la prima volta ho assistito alla proiezione de “Il concerto” di Radu Mihăileanu ho anche capito che tipo di sceneggiatrice avrei voluto essere: una in grado di donare emozioni. Credo di essermi resa conto di star percorrendo davvero la mia strada, quella giusta, quando un regista, dopo aver letto un mio script, mi ha confidato che lo aveva commosso e divertito e fatto riflettere, tutto in un’unica lettura. In quel momento mi sono detta “Ok Ale, continua!”

Hai scritto, prodotto e realizzato un bellissimo lungometraggio, “È un Cerchio Imperfetto”, che ha vinto svariati premi internazionali. Ci racconti come è nato questo film e quali e quanti premi ha vinto in giro per il mondo?

“Cerchio”, come ormai ho iniziato a chiamarlo, è stata la mia prima vera avventura in questo campo. In precedenza avevo scritto molto, mi ero occupata di montaggio e riprese video ma, abitando in provincia di Padova, non avevo mai avuto la possibilità di mettermi davvero alla prova. Poi un giorno ho iniziato a vedere nella mia testa questo personaggio, Theo, schivo e un po’ borderline se vogliamo, uno che non sai se “ci è o ci fa”, come si dice. M’incuriosiva e così, per cercare di capirlo un po’ di più, ho iniziato a scrivere la sua storia. Che è particolare, con molteplici interpretazioni, e avevo ben chiaro che la musica doveva essere un ingrediente essenziale. Proprio per questo suo non essere il classico film italiano ho pensato che, se ci credevo davvero, avrei dovuto mettermi in gioco a 360° per realizzarlo. E così, oltre a sceneggiatrice, mi sono ritrovata a rivestire per la prima volta i panni di produttrice. Praticamente nessuno ci scommetteva che sarei arrivata alla fine dell’impresa (diciamocelo, per qualcuno che il mondo del cinema lo conosce solo da distante in effetti è un qualcosa di titanico…) e forse proprio questo mi ha dato la carica per realizzarlo. Alla fine però ne è valsa la pena. Come dicevi tu “Cerchio” ha collezionato numerosi premi internazionali, dal Canada e gli USA all’India passando per l’Inghilterra e l’Italia e arrivando perfino in Africa. 18 riconoscimenti, per l’esattezza. E quello che mi ha dato maggior soddisfazione è stato che il 18esimo è arrivato allo scorso Festival del Cinema di Salerno. Pensavo che l’Italia non avrebbe mai apprezzato un prodotto del genere, fortunatamente mi sono dovuta ricredere!

Malgrado tutti questi importantissimi riconoscimenti internazionali, le case di distribuzione italiane hanno fatto orecchie da mercante e non hanno manifestato particolare interesse per portare nelle sale cinematografiche italiane questo film. Come mai secondo te? Perché in Italia accadono queste cose?

 Ma sai… con l’esperienza impari che la distribuzione dovresti trovarla ancora prima di andare sul set. Ma sono le classiche lezioni che non apprendi sui banchi di scuola bensì quando ti ci schianti contro nella vita reale. La realtà, per come l’ho conosciuta io, è che ci sono molti circuiti chiusi, se già non ne fai parte ne hai contatti all’interno è difficile entrare. Poi, come dicevo prima, “Cerchio” è un’opera complicata, inusuale per la mentalità italiana. Purtroppo bisogna sempre fare i conti con il fatto che il cinema non è solo arte, come ci piace pensare, è innanzitutto industria, volta ai profitti. Ma per portare in sala la gente in Italia servono “i nomi” mentre il mio film porta sullo schermo attori talentuosi ma alle primissime armi… non la migliore presentazione quando vai da un distributore. La novità… non lo so, probabilmente fa paura tanto a chi deve investire sulla distribuzione tanto a chi va a vedere un film che, considerato il costo del biglietto, vuole investire tempo e soldi in un prodotto rassicurante e conosciuto. Ma mai dire mai, chissà, forse un giorno lo vedremo su un grande schermo che non sia quello di un festival!

Da qualche giorno è uscito il tuo primo romanzo, Elephant, edito da Les Flâneurs Edizioni, giovane casa editrice di Bari. Ci racconti come nasce questo progetto editoriale? Cosa troverà il lettore leggendo questa storia?

Elephant. Cosa posso dire di Elephant? Sono follemente innamorata di questa storia e di questi personaggi. Com’è nato? Devi sapere che io non scrivo nulla se devo “pensarci”. Intendo dire, non mi piacciono quelle operazioni commerciali per le quali ti metti a tavolino e studi la situazione attuale e decidi cosa funziona e cosa no. Io per prima cosa devo “vedere” i personaggi. In questo caso avevo LeRoy, un anziano sassofonista di New Orleans, che continuava a strimpellare musica jazz. Io adoro il jazz e adoro il sax quindi ho avuto un colpo di fulmine per lui, tanto da voler conoscere la sua storia. Percepivo della tristezza, delle ferite mai rimarginate, dei sensi di colpa che si riflettevano nella sua musica, una melodia che potevo udire solo io. Ma che meritava di essere portata fuori dalla mia testa. Purtroppo non scrivo musica… ma ho provato a tradurla in parole. Un po’ alla volta, poi, sono arrivati gli altri personaggi, ognuno con la sua storia, con la sua voce unica. E non potevo esimermi dal narrare questo piccolo, prezioso pezzo delle loro vite. Spesso nelle prime pagine di un libro si legge una citazione. Io ne ho scelta una di Charlie Parker: “Non suonare il sassofono, lascia che sia lui a suonare te.” L’ho scelta non solo perché è il modo in cui LeRoy e suo nipote Josh si approcciano al loro strumento, ma anche perché è come io mi avvicino alle storie che scrivo: in realtà sono loro a scrivere me, io sono solo un mezzo per portarle fuori, per metterle nero su bianco.

Per quel che riguarda quello che troverà il lettore… musica, ovviamente, tanta musica. E uno sguardo diverso su New Orleans, una delle città che più mi affascinano. Ovviamente non si può parlare di Crescent City senza incrociare il Voodoo, che infatti non mancherà. Ma Elephant è innanzitutto un romanzo di formazione, di amicizia, di sogni e del coraggio che serve per realizzarli.

Una domanda difficile Alessia: Perché i nostri lettori dovrebbero comprare il tuo libro? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria a comprarlo.

Effettivamente non è facile dare una ragione universalmente valida. Ma come dicevo prima, quello che ho sempre cercato di fare con la scrittura è di riuscire a trasmettere emozioni. Ecco. Io ho riletto infinite volte Elephant, durante le varie stesure e poi rapportandomi con l’editor e ancora quando finalmente ho avuto il libro stampato tra le mani. E devo ammettere che, per quanto io conosca a memoria ogni singola frase, ogni volta mi sono commossa, emozionata. Ecco, forse il motivo principale è proprio questo: per provare, per sentire qualcosa dentro.

Ma Elephant è interessante anche per come è strutturato, ossia come una Jam Session di Jazz. Ogni personaggio, non solo i protagonisti, ha avuto la possibilità di avere il suo assolo, di farsi conoscere… meglio e di conoscere meglio sé stesso.

E credo che, visto il periodo storico che stiamo vivendo, possa essere interessante anche lo sguardo al razzismo e al suo superamento. Chase, che nonostante il nome è italiano, si ritrova infatti a immergersi in un mondo, distante da casa, di soli neri e ovviamente viene accolto con molta diffidenza. Ma, in questo caso, è l’amore per la musica che permette di superare la barriera del colore della pelle e creare legami forti.

Ci sono però anche altri temi importanti ed attuali, come il bullismo e la depressione. E non mancano le donne forti, quelle che nonostante le difficoltà della vita riescono ad andare avanti senza smettere di lottare per quello in cui credono, che sia la felicità di un figlio o la realizzazione nel mondo lavorativo.

Insomma, credo Elephant sia una storia ad ampio spettro in cui tutti possono trovare un personaggio in cui rispecchiarsi e per il quale “fare tifo”.

«La sceneggiatura è il genere di scrittura meno comunicativo che sia mai stato concepito. È difficile trasmettere l’atmosfera ed è difficile trasmettere le immagini. Si può trasmettere il dialogo; se ci si attiene alle convenzioni di una sceneggiatura, la descrizione deve essere molto breve e telegrafica. Non si può creare un’atmosfera o niente del genere…» (Conversazione con Stanley Kubrick su 2001 di Maurice Rapf, 1969). Cosa ne pensi delle parole di Kubrik sulla sceneggiatura, considerato che principalmente ti definisci una sceneggiatrice? Quanto è importante la sceneggiatura per la realizzazione di un’opera cinematografica?

Mettiamola così, parafrasando un vecchio spot: no sceneggiatura, no film. In realtà molti pensano che uno sceneggiatore si occupi di scrivere i dialoghi, non si rendono conto che uno script cinematografico indica sì le battute agli attori ma suggerisce anche i loro movimenti, gli stati d’animo, il tono di voce… ma offre indicazioni anche al regista e a tutti i membri della troupe e pure al montatore. Ad esempio puoi descrivere gli ambienti e gli abiti, puoi indicare la musica, puoi scrivere suggerendo al cameraman che tipo di inquadratura deve fare perché è funzionale alla storia e al montatore quando inserire un taglio o fare una determinata transizione. Senza contare che i finanziatori si basano, oltre ai nomi di cui parlavamo prima, sulla storia, e che l’intera organizzazione delle riprese viene fatta partendo dalla stessa. Insomma, stiamo parlando delle fondamenta su cui si basa il tutto. Poi, ovviamente, ognuno mette la sua arte e le sue capacità e si confrontano le idee. Ma se alla base non hai un’ottima sceneggiatura non avrai mai un buon film.

Riguardo la citazione di Kubrick… chi sono io per essere in disaccordo con un simile mostro sacro? Ehm… però temo di esserlo! A volte pochissime parole, scelte accuratamente e scritte con il giusto ritmo, sono in grado di creare l’atmosfera perfetta e comunicare il giusto stato d’animo. A volte anche il solo indicare un piccolo gesto, come una mano che si stringe a pugno, o il mostrare un oggetto, che ne so, un orologio fermo, aiuta a comunicare molto più, e con più efficienza, di intere pagine di letteratura. Facile? Nessuno dice che lo sia. Ma vale la pena tentare.

Chi sono secondo te i tre più bravi sceneggiatori nel mercato internazionale e perché?

Premesso che vorrei tornare indietro nel tempo per conoscere Nora Ephron, con i suoi fantastici ritratti impressionisti di coppie… Quentin Tarantino è uno dei miei idoli per quel che riguarda i dialoghi, affilati come rasoi e di grande ironia. Altro sceneggiatore che stimo è Josh Singer, non solo autore di diverse serie TV ma anche coautore di opere del calibro di The Post e Il caso Spotlight. Non è facile portare sullo schermo fatti realmente accaduti ma lui ci riesce egregiamente, offrendo una visione veritiera e oggettiva dei fatti. Infine… anche se la lista potrebbe essere ancora lunga (prendiamo ad esempio Sorkin o Kaufman o ancora la coppia, professionalmente parlando, Neustadter/Weber), impareggiabili sono i fratelli Coen, creatori di mondi ironicamente realistici e di personaggi tanto graffianti quanto brillanti.

Adesso sei anche una scrittrice, Alessia. La maggior parte degli autori ha un grande sogno, quello che il suo romanzo diventi un film diretto da un grande regista. A questo proposito, Stanley Kubrik, che era un appassionato di romanzi e di storie dalle quali poter trarre un suo film, leggeva in modo quasi predatorio centinaia di libri e perché un racconto lo colpisse diceva: «Le sensazioni date dalla storia la prima volta che la si legge sono il parametro fondamentale in assoluto. (…) Quella impressione è la cosa più preziosa che hai, non puoi più riaverla: è il parametro per qualsiasi giudizio esprimi mentre vai più a fondo nel lavoro, perché quando realizzi un film si tratta di entrare nei particolari sempre più minuziosamente, arrivando infine a emozionarsi per dettagli come il suono di un passo nella colona sonora mentre fai il mix.» (tratto da “La guerra del Vietnam di Kubrick”, di Francis Clines, pubblicato sul New York Times, 21 giugno 1987). Pensi che le tue storie sappiano innescare nel lettore quelle sensazioni di cui parla Kubrick? E se sì, quali sono secondo te?

Credo che Kubrick si riferisse ad autori di un livello eccelso a cui non posso neanche lontanamente paragonarmi, però non posso che essere d’accordo con lui. Penso di aver seguito, anche se inconsciamente, questo percorso quando ho iniziato ad immaginare Elephant. A partire dal titolo, breve ma potente, che altro non è se non il nickname con cui è conosciuto il protagonista LeRoy. Un soprannome che richiama la forza della sua musica, la capacità di suscitare emozioni insita in essa e anche l’idea che il sax sia un tutt’uno con l’uomo, la sua proboscide, con la quale si esprime. Anche la copertina l’ho voluta semplice ma d’impatto, con questo sfondo nero su cui spicca la silhouette dello strumento. Credo che incuriosire un possibile lettore sia il primo passo da compiere. Almeno, per me funziona così quando entro in una libreria alla ricerca di una storia di cui ignoro l’esistenza. Osservo la copertina e se m’incuriosisce leggo il titolo. Se è promettente passo alla sinossi e, se ancora una volta il responso è positivo, scorro qualche pagina per capire se la prosa corrisponde ai miei gusti. Visto che quando scrivo ho già le scene ben chiare, visivamente, in testa, e che sono abituata ad usare la sintesi richiesta dalle sceneggiatura, credo uno dei punti di forza possa essere uno stile di scrittura quasi ibrido tra le due strutture. E poi il fatto stesso che sia stato concepito come una sinfonia, con diversi “assoli” dei personaggi permette repentini cambi di stati d’animo. Il lettore verrà cullato dalle dolci sinfonie e riceverà pugni nello stomaco quando si troverà immerso nella realtà più cruda di un mondo che sa essere anche crudele come quello della musica. Ma sarà anche avvolto dalla dolcezza del perdono e stringerà i denti rabbioso davanti alle ingiustizie sociali. Qualcuno forse si ritroverà a battere i piedi a ritmo quando il piccolo Josh impugnerà il suo sax e altri potrebbero sentire un brivido lungo la schiena di fronte all’ingresso nel mondo del Voodoo. Insomma, credo che a seconda della sensibilità personale ciascuno verrà toccato in modo diverso da passaggi diversi. O almeno, questa è la mia speranza.

Se dovessi consigliare a dei ragazzi delle letture, quali libri e quali autori consiglieresti e perché?

Credo che per quel che riguarda i romanzi young-adult consiglierei i libri di John Green, l’autore, tra gli altri, di Colpa delle stelle, da cui è stato tratto un famoso film. Reputo Green uno degli scrittori contemporanei che meglio ricreano il mondo adolescenziale con i suoi drammi e le sue speranze senza cadere nel sensazionalismo e uscendo dai soliti schemi tipo primo amore-prima delusione. Sullo stesso piano c’è poi anche David Levithan, assolutamente consigliato.

Altri suggerimenti sono Raccontami di un giorno perfetto e L’universo nei tuoi occhi, di Jennifer Niven, uno sguardo delicato e da un punto di vista inusuale sull’adolescenza e i rapporti di coppia in grado di superare i limiti che noi stessi spesso ci imponiamo.

Banalmente, mi sento di citare la saga di Harry Potter, consigliata ad ogni età. Trovo sia un po’ come certi film della Disney: aperta a diverse letture a seconda delle esperienze di vita. I lettori più giovani verranno affascinati dal mondo della magia ma crescendo capiranno meglio anche tante tematiche sottese alle gesta dei giovani maghetti.

Ancora una volta, la lista sarebbe molto lunga. Potrei passare dal Giovane Holden alle opere di Calvino a Jack Frusciante è uscito dal gruppo ai libri di Nick Hornby e così via. Ma credo quello veramente importante da dire sia: leggete, leggete, leggete! Spaziate tra i generi, scoprite i vostri autori preferiti, curiosate tra i classici e tenetevi aggiornati sulle novità. Ogni libro vi fa vivere un’avventura, vi immette in un’esistenza diversa, vi entra dentro e vi trasforma e vi fa crescere mentre imparate a farvi una vostra idea della vita e del mondo. Siate curiosi e fregatevene se passate per secchioni davanti agli amici che non amano la lettura. Leggere espande l’anima e la testa e vi arricchisce come nient’altro è in grado di fare.

Perché secondo te oggi il cinema è importante?

Il cinema è importante? Credo che certo cinema lo sia. Lo è quello che ti apre gli occhi sulla realtà e quello che ti permette di sognare o di evadere per un po’ da quella stessa realtà stimolando il cervello. Lo è quello che riporta in auge fatti storici che possono insegnarci qualcosa. Lo è quello che ha qualche messaggio da comunicare. Poi, purtroppo, ci sono film pensati in vista degli incassi. Ci sono quelle opere di cui ti dimentichi appena si riaccendono le luci e con gli amici inizi a pensare a come concludere la serata. Molti film, purtroppo, servono semplicemente per staccare il cervello e per preservare la massa dei sudditi che chinano la testa accettando le decisioni dall’alto. Il cinema è fascinazione, ma se quando esci dalla sala non senti la necessità di spendere qualche parola su quello che hai appena visto beh, a mio avviso hai sprecato i soldi del biglietto. Fortunatamente però poi ci sono anche gli altri film, quelli che magari non sbancheranno il botteghino ma che ti entrano nel cervello come una lama rovente e ti obbligano a far lavorare i neuroni. Direi che questo è il cinema che amo, quello che voglio fare.

Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, in una bella intervista del 1967 disse… «A cosa serve l’Arte se non ad aiutare gli uomini a vivere?» (Intervista a Michael Perkins, Charles Bukowski: the Angry Poet, “In New York”, New York, vol 1, n. 17, 1967, pp. 15-18). Tu cosa ne pensi in proposito. Secondo te a cosa serve l’Arte del cinema, della scrittura, della narrazione, del raccontare?

Verissimo! Leggere, ascoltare, guardare sullo schermo una storia aiuta a vivere perché ti spiega la vita e le sue regole. Ti mostra come gli altri possono reagire, come il mondo intorno a te può farlo a seconda delle tue azioni. Ti fa uscire dalla tua piccola realtà mostrandotene molte altre e dandoti così una possibilità di scelta. Ti ricorda che ogni cosa è relativa, che ci sono tante strade da percorrere e t’instilla la curiosità di scoprirle. Ti parla delle relazioni e delle emozioni umane. Ti suggerisce che puoi diventare ciò che vuoi, da santo al peggiore dei farabutti, perché nel profondo abbiamo tutti una stessa scintilla e spetta a noi decidere come prendercene cura e cosa portare in superficie. Ci ricorda che tutto sta nel nostro libero arbitrio e a come reagiamo di fronte ad una situazione: fuggiamo, lottiamo o cerchiamo aiuto? L’arte aiuta ad esorcizzare le nostre paure senza farci correre rischi, mentre siamo comodamente seduti da qualche parte, sia sul divano di casa o in un cinema. Viviamo emozioni forti ma stando al sicuro. E così cresciamo, capendo che tipo di persone siamo.

A cosa stai lavorando in questo momento? Oltre alla presentazione del tuo romanzo in giro per l’Italia, quali sono i tuoi prossimi appuntamenti di lavoro?

Prossimamente… mi aspetta il set! Sono infatti in preproduzione due lungometraggi di cui ho firmato la sceneggiatura. Si tratta di progetti molto diversi tra loro e proprio questo mi ha affascinata, la possibilità di spaziare. Il primo è un thriller, Storia Nostra, prodotto dalla Dream Movie di Maria Teresa Bruni, co prodotto da Paola Cipollina e con Giovanni Coi come direttore di produzione. Avrà la regia di Max Leonida e vuole riportare in auge i contrasti dei famosissimi Don Camillo e Peppone. Ovviamente il tutto è rivisto in chiave moderna quindi non ritroveremo se non “nello spirito” i due nemici-amici ma tratteremo comunque i temi più cari del Guareschi. Il secondo progetto, Il venditore di attimi, prodotto dalla MovieStart di Roberto Siepi e che vedrà alla regia Rocco Mortelliti, è un giallo psicologico che riserva non pochi colpi di scena. Insomma… direi che l’agenda per il prossimo futuro è bella fitta.

Immagina una convention all’americana, Alessia, tenuta in un teatro italiano, con qualche migliaio di adolescenti appassionati di cinema. Sei invitata ad aprire il simposio con una tua introduzione di quindici minuti.
Cosa diresti a tutti quei ragazzi per appassionarli al mondo della recitazione, del teatro e della settima arte? Quali secondo te le tre cose più importanti da raccontare loro sulla tua arte?

Bella domanda… ma come sai tendo a pensare controcorrente… Quindi credo che in una situazione del genere spiazzerei tutti e cercherei di dissuaderli dal fare una simile scelta. Al giorno d’oggi, dove contano i like ad un post e il numero di follower sui social, dove i tronisti e i concorrenti dei reality sono visti come nuovi idoli, credo fin troppi aspirino alla facile fama mordi e fuggi. In Italia poi, dove anche i personaggi più di spicco hanno tristi problemi con i modi verbali ma tutti sono poeti e scrittori, credo sia giusto essere onesti. In poche parole, farei quello che hanno fatto i miei genitori con me: sottolineerei quanto è difficile riuscire a trovare anche solo un minuscolo spazio in questo mondo e quanti sono i sacrifici da compiere. Per esperienza so che non importa quanto grandi siano gli ostacoli che ti si pongono davanti, quanto insonorizzate siano le porte a cui provi a bussare, quante lunghe siano le notti in cui ti chiedi perché non potevi scegliere una strada meno impervia… Se dentro il tuo sogno è vivo e variopinto e rappresenta la tua unica fonte di ossigeno, tu non smetti di lottare per esso. Io sono fortunata perché sono sempre stata libera di scegliere la strada da seguire e in famiglia mi hanno sempre supportato quando hanno capito che ero disposta a qualsiasi sacrificio pur di farcela. Ma ho anche dovuto stringere i denti e rialzarmi da sola e combattere contro lo scoraggiamento che a volte ti assale quando vedi che nessuno ha intenzione di darti retta. E ho visto tanti ragazzi che nutrivano i miei stessi sogni abbandonarli maledicendo le loro scelte e il tempo sprecato per rincorrerli. Quindi in quel teatro continuerei a scoraggiare quei ragazzi abituati al tutto e subito e senza fatica fino a quando la maggior parte di loro non abbandonasse il loro posto. Ai pochi rimasti, con gli occhi brillanti al pensiero di poter arrivare un giorno a vedere una loro opera sul grande schermo o stampata e con lo sguardo di sfida rivolto a me, farei un applauso. Perché se nonostante tutto non hanno lasciato la sala, allora ci credono davvero e non verranno distrutti da nessuna difficoltà. Solo a quel punto potrei confessare loro che il nostro è il lavoro più bello del mondo e che quando scriviamo ci mettiamo allo stesso livello di un creatore che dona la vita ai suoi personaggi. E che questa sensazione è impagabile. E che il nostro primo compito, oltre a leggere, scrivere, guardare film, studiare incessantemente, è conoscere noi stessi, fin nel profondo, in ogni più piccola sfumatura. Perché solo conoscendo e riconoscendo le nostre emozioni saremo in grado di descrivere quelle dei nostri protagonisti e di trasmetterle. E infine, visto che a questo punto avrei praticamente finito il mio tempo, direi e ripeterei loro ancora e ancora di osare, di non aver paura, di andare contro corrente, di non imporsi limiti e di non permettere che la società e il sistema li imponga loro: la fantasia è la nostra prima arma, quella che ci permetterà di distinguerci e di far sentir la nostra voce, ripromettendoci di farla essere sempre unica.

Articolo ed intervista a cura di Andrea Giostra

Alessia Vegro

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