“Si ama la propria madre quasi senza saperlo, senza comprenderlo, perché è naturale come vivere; e avvertiamo la profondità delle radici di tale amore solo al momento della separazione finale”
Guy De Maupassant
Si apre con questa citazione l’opera prima dell’allora ventenne regista canadese Xavier Dolan, il disturbante J’ai tué ma mère (Ho ucciso mia madre). Disturbante nella misura in cui il regista catapulta lo spettatore in un realismo domestico, dove per “uccidere la madre”, ovviamente non va inteso come un’eliminazione fisica ma sociale e psicologia.
Come ne I quattrocento colpi di Truffaut, Hubert racconta alla propria insegnante che la madre è deceduta. Il fallimentare tentativo del protagonista/autore di escluderla dalla propria vita personale, alla ricerca di indipendenza. Navigare senza riferimenti come lo era stato per Virginia Woolf nel suo “Gita al Faro”, cercando di liberarsi di fantasmi, preadolescenziali, nel tentativo di stipulare una pace col passato.
«Uccidersi nelle teste per poter rinascere»
Quello che certo sorprende è proprio la scrittura. Solida ed asciutta a fronte della giovanissima età dell’autore che si cimentò con questa sceneggiatura quando aveva ancora sedici anni. Il regista aveva trovato ispirazione dal turbolento rapporto edipico con la madre. Ovviamente un’opera profondamente autobiografica interpretata dallo stesso regista che riprenderà il tema pochi anni dopo con Mommy, pellicola che lo confermerà come uno degli autori più promettenti del nuovo millennio.
In entrambe i film Dolan affida il ruolo della figura materna alla medesima attrice, la sorprendente Anne Dorval. Conosciuta in patria, meno all’estero, l’attrice lavorerà anche in altri film del giovane regista come Les Amours imaginaires e Laurence Anyways.
La pellicola dimostra già dalle prime immagini una cifra stilistica precisamente delineata. Close up che rimandano all’estetica di autori più o meno recenti come Almodovar, W. Anderson, Wong Kar-wai e Kitano. Scelte che testimoniano la maturità del giovanissimo regista ma anche le sue intenzioni narrative. Senza giri di parole questa overture con primissimi piani sul modo goffo con cui la madre del giovane Hubert fa colazione, sono già metafora del tema del film. Una viscerale indagine sulla figura genitoriale senza la benché minima intenzione di indulgere su buonismi affettati o cerimoniosi ritratti di famiglia.
La pellicola rimane comunque infarcita di vezzi stilistici e tendenze estetizzanti che si perdonano al giovane autore alla sua opera prima. Un po’ meno nelle sue prove più recenti.
Nel complesso un piccolo gioiello grezzo e generazionale (con non pochi rimandi al cinema più maturo di Araki) per comprendere le origini di un autore che deve però ancora dimostrare a pieno il suo valore.