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Intervista al vulcanico regista Diego Carli!

Buongiorno Diego! Con quali film e in che periodo della tua vita nasce la passione per il cinema?

La passione nasce, forse, da sempre.  Mio padre negli anni settanta durante il periodo estivo gestiva un cinema all’aperto: tre mesi di film tutte le sere e io da bambino non me ne son perso uno, dalla commedia scollacciata a Lucio Fulci, da Sergio Leone a Franco e Ciccio.  Poi ho iniziato coi fumetti, un surrogato del cinema, in tempi nei quali era proibitivo solo pensarci. Le mie erano vere e proprie storie da rappresentare su video tanto erano dettagliati i disegni, quasi da sembrare accurati story board. Poi con la scuola artistica ho studiato fotografia e Mass Media con il prof. Carlo Montanaro all’Accademia di Belle Arti e da allora, complicità sua che mi ha indotto la passione, ci ho provato sempre.

Prima di parlare della tua attività di regista, ci puoi raccontare della tua carriera di attore teatrale e televisivo?

Ho iniziato giovane, seguendo un corso con Donato Sartori a scuola, dove si univano varie arti: pittura, scultura, performance, arti visive, venne persino Dario Fo a farci uno stage. Poi varie scuole e corsi che mi hanno formato con diversi metodi ma credo che la palestra più importante sia stata e non lo rinnegherò mai, il cabaret: ti forgia e ti dà forza se veramente voi praticare questa professione.

Da anni ormai lavori coi ragazzi e i bambini in campo artistico. Quali sono le differenze a livello umano e “a pelle” rispetto a quando lavori con gli adulti?

I ragazzi sono difficili. Ti osservano, ti scrutano e ti giudicano. Devi dare il massimo, devi dimostrare subito di saper fare perché è una sfida continua. Una volta presi, sono secchi da riempire perché assorbono tutte le informazioni e le tue esperienze tanto da innamorarsi del lavoro e svolgerlo al meglio, con tutto loro stessi. Si lanciano quando hai dimostrato di meritare la loro fiducia e qui inizia il difficile perché vanno protetti, bisogna saper dosare senza spingere ma aver pazienza e spiegare molto, tutto, ogni tua azione e idea.

Soprattutto nel cinema, sei il loro momentaneo padre, mentore, figura di riferimento, amico. Guai tradirli e saranno il miglior materiale sul quale lavorare. Sono veri e lo dimostrano. Gli adulti devono invece riscoprire il bimbo dentro di se e liberarsi di preconcetti e infrastrutture mentali.  Il regista è qui per questo e deve saper trovare la chiave di volta. In fondo creare sia per gli uni che per gli altri un clima disteso, si ottiene molto di più, non sempre è facile e non sempre ti riesce ma è la vita.

Il tuo esordio alla regia avviene, se non sbaglio, con il corto “Verdemale”, nel 2007…

Fu un progetto derivato da un lavoro svolto precedentemente con ragazzi che ho seguito per due anni nei quali abbiamo fatto molta esperienza di teatro. All’età di 13 anni abbiamo fatto una riunione ed ho proposto un corto sul bullismo dove si facesse leva sui sentimenti, quindi un lavoro interiore non da poco per quell’età.  Accettarono con entusiasmo e portammo a termine il lavoro con soddisfazione. I ragazzi si auto organizzavano, trovavano dentro di sé le motivazioni per interpretare i personaggi e le implicazioni psicologiche conseguenti. E’ un lavoro che ci ha fatto crescere e cementato un’amicizia che dura ancora oggi che sono adulti, tanto che con molti di loro ci sentiamo e uno di questi ha lavorato ancora con me in un paio di spot. La magia del cinema.

L’anno seguente dirigi il pluri-premiato “Orçe”. Come nasce il progetto di questo corto?

Avevo voglia di provare a fare un horror sfruttando le potenzialità della mia zona (vivo ai piedi della Lessinia). Prima di fare un film amo documentarmi tanto perché odio le improvvisazioni che spesso portano a strafalcioni storici poco credibili. La bellezza delle zone veronesi è che ha conservato nei secoli, leggende e storie antiche di personaggi fantastici legati alla cultura contadina, nonché un Pantheon di animali e mostri da far invidia alla Rowling. Uno di questi è l’orco che viene rappresentato diversamente zona dopo zona.

Ho voluto riscoprire questo personaggio tipico delle mie montagne e farmi ispirare per una storia moderna legata a doppio filo con la tradizione, ambientando il film in due periodi storici differenti: il primo novecento dove ancora nelle montagne si parlava cimbro (e infatti gli attori parlano questa lingua) e nei giorni nostri dove una famiglia di escursionisti incontra “La Leggenda”. Il resto è fantasia ma assolutamente legata a fatti culturali, ambientali e storici esistenti. Un corto che è stato molto apprezzato.

“Il mistero dell’acqua scomparsa” invece vince un premio al Giffoni Film Festival!

Non sono coinvolto direttamente in questo progetto come regista ma autore delle musiche. Un bel film di animazione che con sorpresa ha vinto un premio quindi, anch’io.

2 anni dopo è il momento de “L’enigma del tucano”. Anch’esso si aggiudica un premio…

Sempre un lavoro fatto coi ragazzi liberamente ispirato al libro “Il teorema del pappagallo” di Denis Guedj, un giallo che si snoda tra Parigi e la Sicilia e girato tutto in Chroma key con scenografie meravigliosamente finte costruite dai ragazzi stessi che hanno riprodotto una Parigi in miniatura di cartapesta degna dei fumetti  di Tin Tin.

Nel 2013 giri il corto “Bad taste”. E’ un omaggio a Peter Jackson?

In realtà ho rubato solo il titolo! Sono stato invitato ad un festival di cinema “trash” ed ho pensato bene di girare un corto totalmente demenziale in modo assolutamente in linea col tema: ho girato con un cellulare! Il tema è il cattivo gusto. Girato in Sardegna tra un hotel improbabile, un karaoke bar e altro. Ha vinto il premio della critica al festival. Chi se lo aspettava?

“La cena perfetta”, un po’ come “Orçe”, vince una marea di premi. Ce ne puoi parlare?

Sono stato contattato per realizzare un corto con la scuola di Monteforte in collaborazione col comune e la Pro loco sul tema alimentazione. Ho dovuto gestire novantanove ragazzi che si sono presentati per parteciparvi. E’ stato un brainstorming epocale ma ne sono uscito vivo. La storia vuole dare alcune informazioni sul come capire il cibo attraverso la storia bizzarra di una ragazzina che scopre alcune ricette dimenticate e vuole realizzarle. Alla fine alcune amiche indiane l’aiuteranno con la collaborazione di uno zio cuoco ma apportando alcune modifiche personali ai piatti.

E’ un film sull’alimentazione ma anche sull’amicizia e l’integrazione, sul non essere diffidenti nei confronti di altri cibi e culture, insomma  sullo stare a tavola, posto dove qualsiasi problema viene azzerato davanti ad una buona pietanza e perché no? Ad un ottimo bicchier di vino.  Il film tra l’altro ha sbancato un festival in Inghilterra  aggiudicandosi il primo premio, assieme al Ciak Junior 2017 e al premio alla cultura di Tortoreto degli Abruzzi gareggiando con produzioni di alto livello.

“Il caso Anna Mancini”, un horror partito un po’ in sordina, ma che piano piano si sta facendo conoscere, meritatamente, da un pubblico sempre maggiore. E si sta guadagnando la fama di piccolo cult veneto. Come nasce l’idea di questo bell’horror?

E’ iniziato tutto guardando un filmato amatoriale, un fake grossolano ma terrorizzante. Non tanto per i trucchi ma per la naturalezza con la quale è recitato (se recitato…). Ragazzini che giocano in uno stabile in costruzione, parlano dialetto del centro Italia, poi all’improvviso alle spalle di uno di questi appare una figura scura e indefinita. Questi impazziscono e si scapicollano dalle finestre e dai balconi senza protezione e fuggono in bicicletta a rotta di collo!

L’avevo anche dimenticato ma si sa che la memoria visuale è fondamentale nel cinema e infatti quasi inconsciamente pensai ad una storia senza al momento, far riferimento a questo ricordo visivo che solo in seguito mi saltò nella memoria. Siamo partiti con l’idea di un giallo paranormale con l’idea di attingere alle tradizioni italiche ma senza scendere nel solito cliché dei demoni e degli esorcisti, ma volevamo andare oltre. Abbiamo fatto delle ricerche interessanti sui “Succubi” e “Incubi”, divinità malvagie e bucoliche risalenti ai tempi degli Etruschi: esseri che durante il sonno dominano la vittima paralizzandola.

Volevamo concentrarci sul “male”, non sull’esperienza della paralisi notturna, reinterpretando a nostro modo queste figure marginali della mitologia italica e il loro comportamento relazionato al nostro mondo “moderno”, un’antica credenza che si insinua nella vita quotidiana. Il film infatti non spiega come avviene la possessione, da dove arrivi lo spirito e perché colpisca. Ma colpisce. Il male non ha logica e regole. Prende chiunque indistintamente dalla classe sociale, dalla situazione economica, dal credo religioso, dalla zona geografica. In questo è democratico.

Jamovie è un sito seguito da moltissimi appassionati di cinema del terrore. Quindi vogliamo sapere a tutti i costi quali sono i tuoi cult horror preferiti, sia italiani che stranieri!

Non sono moltissimi. ne elenco solo alcuni e non farò una classifica, li butto lì a caso. Italiani sicuramente Suspiria.  Per me Dario Argento in questo film si superò rispetto ai precedenti e mai più si è avvicinato a tanto in seguito. Geniale per regia, atmosfera, storia e fotografia. ha utilizzato questo senso onirico e distaccato dalla realtà che ha fatto scuola. Capolavoro.

The Witch di Robert Eggers. Una volta il maestro Pupi Avati commentando un mio film mi scrisse che è più terrificante quello che non c’è di quello che si vede. Questo film mi ha inquietato e disturbato dall’inizio e la scena finale realmente terrorizzato anche se non c’è nulla di eclatante eppure pigia i tasti del nostro subconscio culturale in modo chirurgico.

Il labirinto de Fauno ma più o meno tutto Gullermo del Toro, quello più fantastico: la sua visione quasi catartica, tra poesia e orrore in un’ambientazione storica meticolosa e inquietante forse più del film stesso in quanto reale. Non mi perderò di certo The Shape of Water.

Romero in toto per la suo transfert dei problemi sociali veicolati dal cinema horror. la simbologia e i paragoni, le denuncie e l’idea politica dietro l’intrattenimento. Genio.

Lascio per ultimo questo film che mi ha dato inconsciamente l’incipit: La Mummia di Terence Fisher del 1959 con Peter Cushing e “Sir” Christopher Lee. Avevo cinque anni e mia madre invece di Cenerentola mi portò a vedere questo film in un cinemino di periferia. Restai traumatizzato tanto che per anni, anche a scuola, sentir parlare di Egitto mi disturbava alquanto. Direi che è un gran film che un cinefilo horror non può non tenere in considerazione.

A quali progetti cinematografici stai lavorando in questo periodo?

Ho vari progetti e qualche trattamento in cassetto, non necessariamente di genere ma per ora voglio tornare al corto per sintetizzare le idee e misurarmi con il minimo di tempo che un cortometraggio impone.  Ritengo comunque che proseguire sul  filone horror è un modo per noi registi indipendenti di tener vivo un genere che altrimenti non avrebbe più ossigeno dato che sono anni che in Italia non si produce a livello industriale oltre le commedie. Qualcosa si muove per fortuna  ma siamo lontani dalla meta.

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Redattore

Cinefilo incallito fin dalla tenera eta', collezionista di film e organizzatore di eventi di cinema e musica. ha organizzato 4 edizioni della "splatter holocaust night", festival di musica metal e corti horror; decine di concerti rock, punk e metal. Appassionato soprattutto di horror estremo, ma anche di film d'autore europei e della buona fantascienza; ha un debole per gli spaghetti western.