“Sai bene che non ho mai amato nessun popolo, perché mai adesso dovrei amare gli ebrei? Io amo solamente i miei amici, è l’unico amore che sono capace di provare.”
Sarebbe impossibile riassumere il pensiero della filosofa, storica e scrittrice tedesca/americana Hannah Arendt in questa frase. Una frase non scontata. Non buttata li a caso. Una frase pensata e prima ancora, vissuta sulla propria pelle ed emozione personale.
E di personale c’è molto in questa vicenda o almeno nella parte raccontata dal film dell’ormai 78enne regista tedesca Margarethe von Trotta, grande esponente del Nuovo cinema tedesco insieme a Rainer Werner Fassbinder. Autrice attenta alle figure femminili e ai portrait in rosa (se mi concedete l’espressione), dirigendo film come quello dedicato alla storica attivista Rosa Luxembourg, nel lontano 1986, o il più recente Rosenstrasse, sulle donne berlinesi negli anni del nazismo.
Dicevamo che è praticamente impossibile riassumere la vita e soprattutto il pensiero di un’autrice così complesso e tanto in vista per la Teoria Politica. Certo possiamo però partire da questo provocatorio incipit per inquadrare meglio il film della von Trotta.
Partiamo dal principio. Hannah Arendt nasce ad Hannover il 14 ottobre 1906. Studentessa di filosofia niente di meno che di Martin Heidegger all’Università di Marburgo, la Arendt si laureò con una tesi sul concetto di amore in Sant’Agostino, sotto la tutela del celebre filosofo e psichiatra Karl Jaspers. Insomma una formazione didattica superiore. Quando la Germania antisemita, per via delle sue origini ebraiche le tolse i diritti civili, compresa la possibilità di ottenere l’abilitazione all’insegnamento nelle università tedesche, la studiosa, all’epoca 27enne, decise di emigrare rimanendo apolide fino al 1951 quando ottenne la cittadinanza statunitense.
Ma gli eventi che ci riguardano iniziano tra il 1960 e il 1963 quando seguì il processo di Adolf Eichmann, scrivendo La banalità del male. Si trattava sostanzialmente del diario dell’autrice, inviato capitolo per capitolo al settimanale New Yorker, sulle sedute del processo del burocrate nazista.
In breve scoppiò un polverone da trasformare la stessa scrittrice in imputata tanto quanto Eichmann. Il suo resoconto divenne infatti un perfetto assist per la studiosa e filosofa ebrea di analizzare senza pregiudizi l’etica dell’Olocausto. A partire proprio dal ruolo che ebbero i minuscoli, insignificanti, banali ed ignoranti burocrati di quella malefica e malata macchina che fu il nazismo. Sminuendo le responsabilità di costoro, la Arendt scatenò su se stessa un putiferio.
Il sarcasmo, la lucidità e l’acutezza della filosofa la ritroviamo nel 2012 in questa sobria asciutta opera della regista tedesca. Un film necessario e potente, che ha il rigore di un buon legal thriller teso e colto.
Ùn film forse non per tutti ma di certo per chi vuole o sente la necessità di rispettare il concetto di libertà di pensiero.
Due ultime considerazioni. La prima riguarda una speciale menzione per la bravissima Barbara Sukowa nella parte della filosofa tedesca. La seconda è un consiglio per il fruitore finale, ossia di vedere il film in lingua originale per comprendere i passaggi tra tedesco, ebraico e inglese.