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Gomorra – La serie: la recensione della terza stagione

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Mi accingo a scrivere questo articolo non più di cinque minuti dopo la fine dell’episodio 12 della terza stagione di Gomorra (serie di punta di Sky Atlantic), il notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 di Fryderyk Chopin che risuona libero e delicato nelle mie orecchie. Un dettaglio insignificante, per voi che leggete, che, tuttavia, potrebbe essere significativo: le dolci note sognanti del compositore polacco creano la perfetta atmosfera per assimilare, digerire ed elaborare quanto visto in questo finale di stagione, il perfetto coronamento di una season che, tra alti e (pochi) bassi, mi ha lasciato sconvolto ed emozionato. E qui, sei settimane dopo l’articolo sui due episodi usciti al cinema, posso finalmente confermare quanto supposto in quella sede: la terza stagione di Gomorra è la migliore.

In primis, è la migliore perché ha saputo sopperire alla mancanza di un personaggio carismatico come quello di Don Pietro Savastano (invero il motivo principale per cui ho cominciato a seguire la serie). Il fantasma del Don aleggia sullo sfondo di questa terza stagione, imperituro nella memoria del figlio Genny (Salvatore Esposito) e dello spettatore e costantemente riecheggiato nell’innocenza e nel nome del figlio di Gennaro. Don Pietro è morto nella carne ma non nello spirito, la sua presenza è palpabile, nonostante che venga direttamente nominato pochissime volte. Riecheggia anche nel personaggio di Patrizia (Cristiana Dell’Anna), che avevamo visto diventare sua amante nelle ultime puntate della seconda stagione, donna forte e affascinante che, ancor più che nella stagione precedente, diventa fondamentale per le sorti della famiglia Savastano. Ma, al tempo stesso, viene egregiamente sostituito da una pletora di altri personaggi meravigliosamente scritti ed interpretati, uno su tutti quello di Sangue Blu, Enzo Villa (Arturo Muselli), un giovane malavitoso che ricorda, per incoscienza e fame di potere, il nostro caro Gennaro, anche per il fatto che entrambi sono “figli d’arte”, se così si può dire.

Da sinistra a destra: Valerio “Vocabolario”, Enzo “Sangue Blu”, Ciro e Genny.

È la migliore grazie ad una scrittura (quasi sempre) egregia, che lascia i giusti dubbi e le giuste perplessità nel pubblico, che, così, si vede costretto ad elaborare teorie di settimana in settimana e ad affezionarsi ulteriormente ai personaggi e alla storia, salvo poi sciogliere tutti quei dubbi e quelle perplessità con colpi di scena ora spiazzanti e ora telefonati (anche se questi ultimi si contano sulla punta delle dita di mezza mano). La sceneggiatura schiaffeggia lo spettatore con un’atmosfera perennemente cupa, che sembra quasi anticipare un imminente armageddon, ma sa anche accarezzarlo, soprattutto quello appassionato di cinema, con frequenti strizzate d’occhio al cinema di gangster che tutti noi amiamo.

È la migliore anche grazie a Ciro Di Marzio (Marco D’Amore), mai tanto protagonista quanto in questa stagione. Un personaggio che ormai, dopo la morte della fidanzata, per mano sua, e della figlia, vive solo per inerzia. Ormai è ridotto ad una statua di carne e sangue, senza alcun sentimento, perché la vita che ha deciso di condurre lo ha privato di tutto ciò a cui teneva. E non basta la rinascita dell’amicizia con Genny, né il nuovo rapporto di “fratellanza” con Enzo a donargli un motivo per voler vivere. La foto delle due donne della sua vita appesa allo specchio della stanza in cui vive è un avviso, un memento mori che lui spesso guarda senza mai osservarlo davvero, come se la loro morte non lo riguardasse affatto. Ma quella foto resta lì per tutta la stagione, un fardello che grava sulle spalle di Ciro, non viene mai rimossa. Ciro ha paura della memoria, del ricordo della fidanzata e della figlia. Questa paura, probabilmente, è l’unica cosa che lo fa davvero tirare avanti, come risulta evidente nell’ultima puntata.

È la migliore grazie a dei villain mai così spietati e crudeli, soprattutto Giuseppe Avitabile (Gianfranco Gallo), il suocero di Gennaro, che sembra Satana sceso in terra, un uomo disposto a tutto pur di raggiungere i suoi scopi, anche far del male (non fisicamente) alla figlia Azzurra ed al nipote Pietro. Anche Scianel, alias Donna Annalisa Magliocca (Cristina Donadio), diventa, come Patrizia, ancora più importante che in passato, anche lei spietata come Don Avitabile. La terza stagione di Gomorra gode dei migliori antagonisti in assoluto, più doppiogiochisti e violenti che mai. Pensiamo ai fratelli Capaccio, uno più pacato e calcolatore, l’altro più irruento, capace di sfondare la faccia di una persona sbattendola su un tavolo senza alcuna esitazione, sempre in cerca di sangue da spargere e di morti da mandare al Creatore.

Ciro ed Enzo: maestro e allievo, alleati per diventare i più forti.

Sia chiaro, questa terza stagione non è affatto esente da difetti (uno su tutti, certi momenti sì importanti ma narrati non al meglio e resi piuttosto noiosi) ma i pregi sono talmente tanti da far chiudere allo spettatore non uno ma entrambi gli occhi su queste pecche. Ritengo inutile sprecare parole per le interpretazioni dei personaggi, perché Gomorra ci ha sempre molto ben abituati. In conclusione, se ancora non avete visto questa stagione, magari in attesa che si concludesse per vederla tutta d’un fiato, recuperatela immediatamente, per lasciarvi trasportare nuovamente in un ambiente marcio fino al midollo, fatto di sangue e tradimenti. Ora che ci penso, un enorme difetto questa stagione ce l’ha: bisogna aspettare un anno per vederne il seguito. E dopo quell’inquadratura finale, su quel corpo che lentamente si lascia divorare dal buio del mare (se l’avete vista, sapete bene di chi sto parlando, se no, lo scoprirete da voi), un anno d’attesa equivale né più né nemmeno che all’eternità.