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Ghost Dog – Il codice del samurai

“Come diceva uno degli anziani, chi colpisce il nemico sul campo di battaglia è come il falco che si avventa su un uccello, sebbene nello stormo se ne contino migliaia, il falco non presta attenzione a nessun uccello, se non a quello che ha puntato per primo.”

I margini della società. E’ il 1999, la fine di un secolo (forse). Un killer schivo che vive sul tetto di un palazzo nel New Jersey, ma la musica non è una ballad del Boss. Suonano potenti diegetici ed extradiegetici, i loop potenti di RZA. Forse iniziare proprio dalla Ost non sarebbe neanche sbagliato, perché chiunque abbia visto questo film di Jim Jarmusch, il giorno dopo è andato di corsa a spendere i pochi guadagni nel CD con la “bande originale” della pellicola. E sono ancor meno quelli che hanno smesso di ascoltarla da 20 anni a questa parte.

Ghost Dog è il nick di un sicario di colore che serve fedelmente il suo signore Louie, un mafioso italo americano che gli aveva salvato la vita otto anni prima. La sua unica compagnia sono i piccioni e la lettura dell’Hagakure kikigaki, che per chi non lo sapesse è una delle opere letterarie più significative del Giappone, nonché depositaria dell’antica saggezza samurai. Quando Louie gli chiederà di uccidere un uomo della mafia, gli equilibri si ribalteranno. Il resto e soprattutto il finale è giusto non spoilerarlo a favore dei pochi che ad oggi non hanno visto il film.

Nel mondo di Jarmusch i mafiosi sono un’anomalia cinematografica, antitetici a quelli di scorsesiana memoria. Ricordano più quelli dipinti con ilare staticità dal nordico Kaurismäki. Non per questo scevri da indole violenta, rappresentano una visione d’auteur, stilizzata della malavita 2.0 americana.

Pur cambiando registro tecnico Jarmusch non rinuncia ai suoi stilemi. Da Permanent Vacation a Stranger than Paradise ma soprattutto ritornano i toni cupi di Dead Man, confermandosi autore indipendente, anarchico ed essenziale.

La pellicola si arricchisce poi di espedienti narrativi volti ad enfatizzare la trama. Rimandi inconsci e citazioni palesi come i guanti bianchi, macguffin hitchcockiani, che in realtà sono un evidente omaggio al film che maggiormente ha ispirato Jarmusch, ossia Le Samourai (Frank Costello faccia d’angelo) di Jean-Pierre Melville. Ancora più evidente grazie all’ambientazione malavitosa, alla lettura dell’Hagakure e agli uccelli (e qui ritorna “maestro del brivido”). Più raffinata poi la citazione dello yakuza movie del 1967 La farfalla sul mirino (殺しの烙印 Koroshi no rakuin) di Seijun Suzuki.

Magistrale è poi Forest Whitaker nella sua interpretazione migliore dopo Bird di Clint Eastwood. A tal proposito diventa impossibile non esaltarsi all’idea che un afroamericano sovrappeso (ma non per questo elegante come una farfalla) possa interpretare un samurai giapponese rispondendo ai i dettami del Bushido. Solo il genio di Jarmusch può tanto.

Ma Ghost Dog è anche un perfetto affresco di un’America crepuscolare, deragliata dai valori morali ed etici dei suoi padri pellegrini, alla ricerca, improbabile e a suo modo romantica di nuovi codici comportamentali e alla rettitudine smarrita nei fast food esistenziali del materialismo statunitense.