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Elephant: quando non vogliamo vedere

Elephant

Elephant (2003), film diretto da Gus Van Sant, è liberamente ispirato al massacro, realizzato il 20 aprile 1999, all’interno degli edifici della Columbine High School, in Colorado. Due studenti della scuola stessa, Eric Harris e Dylan Klebold, spararono su compagni e professori, uccidendo dodici studenti e un insegnate, mentre si contarono ventiquattro feriti. Cosa spinse i due adolescenti a compiere un gesto tanto atroce? Mentre nella realtà storica sono state portate avanti diverse tesi a proposito (tra le quali l’ipotesi che i giovani fossero vittime di bullismo), il regista di Elephant non ce lo dice: le giornate dei ragazzi trascorrono tranquille, tra videogiochi violenti, passione per le armi ma anche prove al pianoforte in cui una pacata sonata quale Chiaro di Luna e la ben nota Per Elisa vengono suonate. Ci troviamo così di fronte a una giornata qualunque in un sereno liceo americano e a due giovani con passioni comuni a molti altri della loro età, senza che nulla di particolare giunga a sconvolgerne le esistenze; eppure un elephant – cioè un problema da tutti riconosciuto ma di cui nessuno vuole parlare – aleggia sulla quotidianità di tutta la comunità.

Le future vittime, così come i protagonisti, sono seguite nel corso della loro giornata, alle volte persino banale, da una macchina da presa sempre molto vicina, quasi lo spettatore fosse costantemente con loro. Le soggettive ci guidano in complessi percorsi all’interno della Columbine, rappresentando gli eventi più volte grazie ai diversi punti di vista di volta in volta assunti. I lunghi piani sequenza altro non fanno che accrescere questo senso di partecipazione alla quotidianità, senza che il montaggio dia la sensazione di una falsificazione del reale. Tutto si sta svolgendo sotto i nostri occhi, come se anche noi fossimo lì, tra i corridoi di una scuola superiore, a fare un servizio fotografico, a incontrare la nostra ragazza, a fare dibattiti sull’omosessualità, a mangiare in mensa, a preoccuparci del nostro aspetto fisico, a correre durante l’ora di educazione fisica, a riordinare i libri della biblioteca, solo per citare alcuni degli eventi che accadono durante la prima parte del film. Nulla di significativo e nulla che ci possa illuminare sulle motivazioni che hanno condotto i due ragazzi al loro folle gesto. Nessuna critica, neppure, alla fine di tutto. Gus Van Sant decide di lasciare in sospeso ogni giudizio. Rimanda qualunque commento allo spettatore, il quale, al termine dei soli 81 minuti delle riprese, rimane ancora immerso in quel “mondo altro” fatto di immagini e suoni ricorrenti (a tal proposito ricordiamo il colore giallo che più volte compare all’interno dei fotogrammi, il tema della natura che si riscontra anche nel sottofondo sonoro in cui udiamo un cinguettio di uccelli, e l’immagine dell’elefante, disegnato su un foglio appeso nella camera di Alex, uno dei ragazzi responsabili della strage). Dunque chi guarda il film partecipa alle vicende senza poter intervenire in modo concreto: inizialmente, pur percependo che qualcosa – qualcosa di terribile – accadrà, non può far altro che stare a guardare, impotente e incapace di comprendere fino in fondo i meccanismi dell’azione; allo stesso modo, il massacro avviene sotto il suo sguardo vigile e attento, quasi “in diretta”, eppure non può (o forse non vuole?) fare niente per fermarlo.

Tanti interrogativi restano aperti dopo la visione di Elephant, eppure uno in particolare ci riguarda da vicino: quanti “elefanti nella stanza” abbiamo anche noi, eppure li lasciamo lì, nella speranza che non si risveglino e rimangano assopiti finché non saranno più un nostro problema? Quante volte abbiamo pensato “meglio lasciare stare, tanto io non c’entro”? E se invece ci coinvolgesse tutti quanti? Se c’entrassimo anche noi?