Holt Farrier, ex star del circo Medici, ritorna dalla guerra, per rivedere i suoi figli, nel frattempo orfani di madre. Ma i tempi sono cambiati, il circo non è più lo stesso, i cavalli sono stati venduti e soprattutto il pubblico è scarso e disinteressato.
Manca una star capace di risvegliare l’immaginifico e la capacità di far librare per aria la credulità degli spettatori, soprattutto dei più piccini. Tutto questo in un’epoca lontana da Fortnite, da serie tv e dal cinema. Poi improvvisamente per un colpo di fortuna e d’intuito, Max Medici, il direttore del circo, riesce a scovare una mamma elefante piuttosto malconcia, ma in realtà, solo faticosamente incinta, di un piccolo pargolo. Alla nascita però il giovanotto sembra essere più un freak che un’attrazione circense. Il tenero Dumbo infatti ha delle enormi orecchie. Tutto questo però già lo sapete e sapete anche che quella diversità del buffo ed affabile elefantino, sono le ali con le quali l’animale riuscirà a volare e con lui anche l’immaginario dei bambini.
Quando si parla di freak, di stravaganti e anticonvenzionali, beh allora il regista in questione non può che essere Tim Burton.
L’immaginario di questo autore ha incantato un’intera generazione, negli anni ’90, per poi andare in pensione replicando la stessa formula nei suoi successivi film (salvo qualche sporadico colpo di genio). Solo uno come lui avrebbe accettato, il rischiosissimo compito di realizzare un remake di Dumbo – L’elefante volante, capolavoro d’animazione del 1941, targato Disney.
In molti si chiedono il perché di queste operazioni di rispolvero e/o di attualizzazione di pietre miliari del passato cinematografico. Opere che spesso, come in questo caso, appartengono all’immaginario collettivo.
La ragione è puramente economica ovviamente. La Disney (icona per eccellenza del capitalismo americano) vuole da 100 anni a questa parte, essere una macchina fabbrica sogni e con loro anche la grana. Quindi ecco qui spiegato il poco nobile disegno dietro al Dumbo 2.0. di Tim Burton.
Ma andiamo al dunque, in questo remake ci sono molte cose che funzionano e qualcosa che poteva essere migliorata. Ad esempio ci si emoziona. Punto a favore.
Il restyling di Dumbo, tutto in CGI, è accattivante e tenero, con i suoi occhioni blu e le sue tenere espressioni, l’animale è più umano che mai. Il distacco dalla mamma elefante poi, è ancora oggi uno strappo al cuore.
Da qui arriviamo ad un altro merito del film.
Anche il sottotesto infatti funziona molto bene, nonostante una sceneggiatura un po’ sciatta firmata da Ehren Kruger. L’immagine di una madre a cui viene strappato il proprio figlio, riporta volutamente negli occhi la foto tristemente cult del 2018, ossia quella scattata innanzi al Wall of Shame USA/MEX trumpiano.
Ma anche la Dreamland gestita dall’impresario V. A. Vandevere (Michael Keaton, il cui parrucchino rimanda a facili e americanissimi riporti d’acconciatura) è troppo simile a Dinseyland, a Disneyworld e a tutte le lussuose cliniche del divertimento seriale, dove sudati turisti s’ingozzano di cibo in cerca di facili emozioni. Quando si dice “Never Bite The Hand That Feeds You” (da noi l’espressione è un po’ più colorita!). E in questo Burton ha avuto veramente un gran coraggio (giusto per non usare un’altra espressione colorita!).
Quello che invece non funziona (come dicevamo prima) è una sceneggiatura troppo dispersiva, che non aiuta i personaggi del film ad emergere, rimanendo ai margini della storia già di per sé un po’ sfocata e a tratti eccessivamente buonista. Tutta la menata animalista (scusate la franchezza espressiva) è ridondante e cacofonica, come quest’ultima frase. L’attualizzazione del film d’altronde non poteva prescindere dagli abusi dell’arte circense su migliaia di creature animali che, per scopo di lucro, hanno vissuto in cattività per anni, da quel lontano 1941, quando venne realizzato il primo Dumbo.