Home Speciale Approfondimenti Storia del cinema dell’Estremo Oriente: il jidaigeki e il cinema d’arti marziali

Storia del cinema dell’Estremo Oriente: il jidaigeki e il cinema d’arti marziali

CAPITOLO 4. JIDAIGEKI E ARTI MARZIALI: IDENTITA’ CINEMATOGRAFICA GIAPPONESE E CINESE

Il cinema giapponese e quello cinese hanno sviluppato, nel corso della loro storia, dei generi che sono diventati simbolo dei rispettivi Paesi. Il jidaigeki, in Giappone, ed il cinema di arti marziali, in Cina, sono tra gli elementi fondamentali dell’identità delle due cinematografie prese in esame oggi (per il momento lasceremo da parte la Corea). Il cinema di arti marziali può essere suddiviso in due sottocategorie: il wuxiapian, solitamente ambientato in un’epoca lontana nel passato e i cui combattimenti avvengono con spade o armi bianche, caratterizzati da acrobazie impossibili e totalmente irrealistiche, ed il gongfupian (film di kung fu), le cui storie hanno luogo nella Cina moderna e presentano combattimenti realistici corpo a corpo.

In Giappone, il jidaigeki ha sempre segnato la storia del cinema del Paese, sin dai suoi esordi, come abbiamo visto nel secondo episodio della serie, a partire dalla florida collaborazione tra Onoe Matsunosuke e Makino Shozo, almeno fino agli anni ’70, durante i quali lo studio system si è estinto. Durante la seconda metà degli anni ’40, e quindi all’inizio dell’occupazione statunitense, tuttavia, il jidaigeki venne bandito a causa dei valori che lo caratterizzavano, ritenuti troppo lontani dal processo di democratizzazione che era in atto. L’importanza del jidaigeki si è affermata tanto nel cinema di genere, all’interno del quale è nato, quanto in quello d’autore, facendo la fortuna di numerosissimi registi fondamentali giapponesi: si pensi a Kurosawa Akira, Kobayashi Masaki, Mizoguchi Kenji, Inagaki Hiroshi e, prima di loro, Ito Daisuke e Makino Masahiro, giusto per citare una manciata dei più noti. Per fare un parallelo con il cinema occidentale, per rendere maggiormente l’idea dell’importanza del jidaigeki, esso è assimilabile al western: non a caso uno dei registi di film western (o, meglio, di spaghetti western) fondamentali, Sergio Leone, ha praticamente copiato un jidaigeki di Kurosawa Akira, Yōjinbō, per realizzare il suo Per un pugno di dollari.

Kurosawa Akira (a sinistra) sul set di “Shichinin no Samurai”, I Sette Samurai.

Il samurai che viene rappresentato nel jidaigeki affonda le proprie radici nel celebre bushidō, un insieme di principi che ha preso forma tra i shogunati Kamakura e Muromachi (1185-1573) e definito nel periodo Tokugawa, tra il 1603 ed il 1868. Alla base di questo codice, c’è l’assoluta fedeltà del bushi (il guerriero) al proprio signore, la cui importanza deve essere primaria per il samurai, al punto tale da dover sacrificare la propria vita per il feudo, qualora fosse necessario. Da qui nasce anche il culto del seppuku, noto anche come harakiri. La fedeltà del guerriero per il padrone è tale che, qualora quest’ultimo morisse, il samurai dovrebbe togliersi la vita, mediante un taglio al ventre, per seguirlo nell’aldilà, oppure che dovrebbe suicidarsi nel caso in cui commettesse una colpa che macchierebbe il buon nome del signore. Molto articolato è lo stile di vita ideale del samurai e, proprio per questo, evitiamo di parlarne in modo approfondito, anche perché non è questa la sede ideale per farlo: qualora foste interessati ad approfondire, vi consiglio di cliccare su questo link. Tutti questi principi, rispettati nella figura del samurai nel jidaigeki classico, verranno messi in discussione in quello anti-feudale caratteristico degli anni ’60.

Uno dei più importanti film del genere è Yōjinbō di Kurosawa Akira, realizzato nel 1961. Si tratta di un’opera innovativa tanto per l’uso della violenza, ben più esplicita rispetto al passato, con ricchi schizzi di sangue (che verranno ripresi in futuro da Quentin Tarantino in Kill Bill e da molti altri) che macchiano la pellicola e la storia in più di un’occasione, quanto per la figura del protagonista, Sanjurō. Questi è un samurai (per la precisione, un ronin, ovvero un guerriero decaduto e rimasto senza padrone) che si è allontanato dalla “retta via” dettata dalle norme del bushidō; la sua perdizione viene perfettamente estrinsecata non solo per mezzo delle sue azioni ma anche dal “design” del personaggio, interpretato dal fantastico Mifune Toshirō (attore feticcio di Kurosawa che interpreterà moltissimi suoi film, come L’angelo ubriaco, Anatomia di un rapimento o I sette samurai), un uomo con la barba incolta, i capelli in disordine, i movimenti goffi: insomma, ben lontano dall’eleganza e dalla maestria che caratterizzano il classico samurai. Sanjurō giunge in un villaggio dominato da due clan yakuza rivali e decide di mettere in atto degli inganni in modo tale che i due gruppi si indeboliscano a vicenda, lasciando a lui il solo compito di sferrare il colpo di grazia e liberare così il villaggio. Il motivo che lo spinge a fare ciò? L’onore? Il senso di giustizia? Assolutamente no. Come abbiamo detto, Sanjurō ha smarrito la strada della rettitudine del bushidō. Dunque cosa lo spinge ad eliminare i due clan yakuza? Lo fa per divertimento. Non dà alcuna spiegazione, è un uomo privo di un codice morale. Più che un samurai, è semplicemente un essere cinico, un mercante di sé stesso che non sfrutta le sue doti da guerriero per combattere il male a fin di bene ma vende il proprio talento per sfidare il male. Disinteressandosi del bene.

Mifune Toshirō è il rōnin Sanjurō in Yōjinbō (La sfida del samurai) di Kurosawa Akira.

Il cinema di arti marziali, in Cina, ha avuto un ruolo fondamentale nel processo di identità artistica cinematografica del Paese, proprio come il jidaigeki in Giappone. Ed anche esso, come i film di samurai, ebbe un periodo di stop, a partire dal 1949, quando venne bandito dalla Repubblica Popolare poiché i valori messi in scena dai film d’arti marziali erano lontani dagli ideali propri del comunismo. Fortunatamente, Hong Kong, una colonia britannica, mantenne in vita la tradizione del cinema di arti marziali, grazie alla produzione di film in cantonese a basso budget. Nata negli anni ’30, la Shaw Brothers, una delle più importanti case cinematografiche cinesi (che curava la produzione, la distribuzione e l’esercizio dei film, secondo quel modello verticale tipico delle major hollywoodiane), aprì degli studi anche ad Hong Kong nel 1957. Il nuovo wuxiapian “ideato” dalla Shaw Brothers prendeva ispirazione da diversi fonti cinematografiche, come lo spaghetti western o il chanbara giapponese. Raymond Chow, braccio destro di Run Run Shaw, il presidente della Shaw Brothers, si allontanò dalla casa produttrice per fondarne una propria, nel 1970: nacque, così, la Golden Harvest, che si dedicò sin dall’inizio alla realizzazione di film d’azione che portarono alla luce il talento di registi come Lo Wei o di attori come Wang Yu e, soprattutto, Bruce Lee, che aveva trattato in precedenza con la casa di Run Run Shaw, senza trovare, però, un accordo. Sarà proprio il giovane artista marziale, che ben presto diverrà una delle personalità più importanti e famose del XX secolo, a fare la fortuna della Golden Harvest, che stabilirà nuovi record d’incasso e che diffonderà in tutto il mondo il gongfupian.

“Jimmy” Wang Yu in Mantieni l’odio per la vendetta (Dú Bì Dāo) di Chang Cheh.

Tra i più importanti registi che hanno reso grande il wuxiapian, sono da ricordare King Hu, “il raffinato esteta del wuxiapian” (Dario Tomasi, “Il cinema asiatico. L’Estremo Oriente”, Editori Laterza p.57), di cui citiamo soltanto il suo massimo capolavoro, A touch of Zen, Lau Kar Leung, regista, tra gli altri, di The 36th chamber of shaolin e nato come coreografo dei film del prossimo regista che citeremo, ovvero Chang Cheh, il quale incarna l’aspetto più violento del genere. La poetica di quest’ultimo è caratterizzata da un particolare interesse per il sentimento della vendetta e dà un ruolo di primaria importanza al senso dell’onore e della lealtà. Uno dei film fondamentali del genere diretto da Chang Cheh è Mantieni l’odio per la tua vendetta (Dú Bì Dāo, in mandarino), nel quale il giovane spadaccino Fang Kang, interpretato dal succitato “Jimmy” Wang Yu, resta senza un braccio a seguito di uno scontro con la figlia del suo maestro. Curato da una contadina, che si innamora di lui, Fang decide di cambiare vita ma, quando scopre che gli assassini che hanno ucciso il padre minacciano anche il suo vecchio maestro, si vede costretto a tornare ad impugnare la spada e combattere. In Dú Bì Dāo, Chang Cheh, oltre a mettere in scena la vendetta, fil rouge che attraversa buona parte della sua filmografia, mostra anche i soprusi delle classi altolocate nei confronti degli strati inferiori della società, ai quali appartiene Fang Kang, e il rapporto tra allievo e maestro, paragonabile a quello tra padre e figlio, oltre al dilemma tipico degli eroi tragici, ovvero una scelta tra due strade che, in ogni caso, hanno dei risvolti drammatici: ignorare la minaccia che incombe sul maestro e restare con la contadina, lontano dalla violenza delle lotte (lasciando quindi morire il maestro) o correre in aiuto del suo mentore, abbandonando la contadina e macchiandosi le mani del sangue degli assassini del padre.

Bruce Lee in “I 3 dell’operazione drago”.

Dei film di Bruce Lee prodotti ad Hong Kong, solo quattro sono giunti fino in Occidente: Il furore della Cina colpisce ancora (Tang shan da xiong, 1971), Dalla Cina con furore (Jing wu men, 1972), L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (Měng Lóng Guò Jiāng, 1972) e I 3 dell’Operazione Drago (Lóng Zhēng Hǔ Dòu, 1973). Bruce Lee è il difensore della comunità cinese oppressa dagli stranieri e, per esteso, diviene l’eroe di tutte quelle minoranze etniche che vivono una situazione sociale estremamente complicata, come la comunità nera o ispanica negli Stati Uniti. Sebbene i personaggi di Lee cerchino di evitare di ricorrere alla violenza il più a lungo possibile, questa si rivela, infine, l’unico mezzo di liberazione e di rivalsa nei confronti dei prepotenti.

Gli altri capitoli della serie sulla storia del cinema sull’Estremo Oriente: