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Ciclo Schrader: Mishima – Una vita in quattro capitoli

Una disposizione naturale, anche se inaridita, come peraltro la mia intera vita che va scemando, rimane ancora ben radicata in me: è l’inclinazione, che fu particolarmente viva nella fanciullezza e nell’ adolescenza, a non temere di trascorrere le ore del giorno fantasticando da Storia di un promontorio, racconto giovanile di Mishima Yukio, pubblicato nel 1946, poco più che ventenne. Ed in queste poche parole, che aprono uno dei suoi racconti più belli seppur non tra i più conosciuti, già molto si può capire della personalità di quest’uomo.

Il ruolo fondamentale fin da piccolo dell’immaginazione, il modo molto lirico di ripensare alla propria giovinezza, la consapevolezza della morte.
Nel 1970 Mishima, a 45 anni, compie Seppuku, il rituale suicidio dei Samurai, come epilogo – preparato e studiato nei particolari – dell’ultima, simbolica e macabra recita di una vita tormentata e complessa, emblematica di uno dei più complessi e controversi personaggi dell’intero Novecento.
D’altronde, l’amore per l’arte teatrale e per la teatralità fu centralissimo in tutto il suo percorso.
Quindici anni dopo, nel 1985, Schrader, cineasta già ampiamente affermato prima come autore e poi come regista di grandi film cult dell’epoca, realizza, lui americano, questo film interamente girato in giapponese.

Un film che, proprio consapevole di quanto estrema e complessa fosse stata la vicenda umana ed artistica dello scrittore nipponico più celebre e discusso di sempre, non pretende certo di essere esaustivo al riguardo, né questo d’altronde è l’obiettivo di Schrader, sceneggiatore qui assieme al fratello. Mishima: A Life in Four Chapters difatti non è un biopic, ma un tentativo, riportando parti del memoriale lasciato prima della morte, di restituire, attraverso un’esperienza cinematografica visionaria e straordinaria che non si dimentica, e dove la fascinazione occidentale di Schrader traspare sempre, l’essenza della poetica, dell’arte, della visione e, sì, anche delle sensazioni dell’autore Mishima e del’uomo Mishima.

Qui, lungo tutto il film quell’amore di Mishima per il teatro e per la trasformazione della realtà ricorrerà sempre, anche stilisticamente nelle varie rappresentazioni.
Una recita in quattro capitoli, ciascuno di essi attraverso la concezione e la rappresentazione di una fase fondamentale del pensiero e dell’arte di Mishima.
La giovinezza, il tormento per l’anima perduta di una nazione, i ricordi, i traumi, la cultura del corpo – che dimostra anche un segno di continuità con American Gigolo dello stesso Schrader.
Il processo creativo di scrittura, vista come un atto voyeuristico, l’omosessualità, sono tutte fondamentali tematiche, questioni sfiorate, toccate, mai lasciate da parte; ma soprattutto quel che è il fulcro, il punto focale della ricerca di Mishima: la bellezza.

                    It’s the beauty that hurts you most.

Mishima, fin da piccolo cresce abituato ad essere considerato fragile, piccolo per la sua età (anche da adulto rimase sempre molto piccolo), nell’odio verso sé stesso e la propria immagine.
La sua opera è una continua ricerca di una bellezza che vive come un mito e come un veleno, come una prigione, e questo torna già nella rappresentazione de Il Padigione d’Oro, primo di tre opere che Schrader si immagina come trasposte in immagini e suoni (quando, curiosamente, nessun romanzo di Mishima è mai stato trasposto cinematograficamente) e che realizza all’interno di questo lavoro.
A pensarci, è lo stesso che farà poi anche Abel Ferrara nel suo recente, e sottovalutato, Pasolini: unire gli ultimi momenti dell’uomo e dell’artista a delle ipotesi di trasposizioni visive delle parole dei due grandi scrittori.

In tutte queste sono i punti centrali del pensiero e della poetica di Mishima ad emergere, ma più di tutto proprio questo: bellezza e morte.
Che diventano infine come un unico soggetto non divisibile ma che trovano il completamento ultimo nell’atto artistico.

Dal momento in cui si inizia a vivere, gradualmente si inizia a produrre arte.
Il mio caso è inverso.
Sento di aver iniziato a vivere quando ho cominciato a produrre arte (Lezioni spirituali per giovani Samurai, 1968)

Se il corpo umano all’apice della sua bellezza è già un’opera d’arte, l’arte è l’unico mezzo possibile in grado di poter preservare quella bellezza dall’ineluttabile decadimento fisico del tempo.
La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre, diceva. Nell’arte tutto può vivere e risuonare in eterno, quel che una persona non potrà mai ottenere.
Ma non solo: per Mishima, arte, azione, morte, ricerca della bellezza Gli uomini indossano maschere per rendersi belli. Ma contrariamente a quella della donna, la determinazione di un uomo a diventare bello, è sempre desiderio di morte sono collegate dallo stesso impulso.
Arriva poi un certo punto in cui le parole non bastano più a descrivere quel proprio accumularsi multiforme non più esprimibile nella forma oggettiva del romanzo.

Mishima fu sempre ossessionato dall’idea della morte, della morte pura, una morte che non può essere tale una volta che il corpo decade a seguito dell’ineluttabile processo d’invecchiamento della carne, una volta che si compia la decomposizione dell’angelo, per citare l’ultimo capitolo della tetralogia de Il mare della fertilità, nonché ultimo romanzo in assoluto prima del suicidio.
Mishima che mise anche in scena la propria morte, prima che nel reale tragico epilogo, anche nella finzione: nel suo unico lavoro come regista, il mediometraggio sperimentale Yukoku (Patriotism: The Rite of Love and Death), ispirato da un suo stesso racconto, e che offre la possibilità a Schrader di mettere in scena anche un piccolo momento di metacinema assolutamente suggestivo e significativo visto, col senno di poi, come andò a finire nella realtà.

Ma l’arte è anche l’ombra, che riflette sempre l’inconscio e il sogno di nobili passioni ed atti eroici, il riflesso oscuro sempre presente che però a un certo punto non basta più, ed è allora che pensiero ed azione debbono divenire cosa unica.
È allora che l’armonia di penna e spada può manifestarsi.
Sia pure che per un solo istante.
L’armonia di penna e spada è quel che il Mishima artista, intellettuale, uomo, paramilitare, simbolo, patriota, inseguì per tutta la vita, perché se le parole sono un inganno, l’azione non lo è mai.
Quando bellezza fisica e bellezza della propria arte diventano la stessa cosa, nello stesso momento, è allora che si può diventare kamikaze della bellezza, morire nel momento dello splendore.
La morte pura, appunto, quando, in quel misto di passioni estreme, idealismo e follia, la ricerca dell’unione di arte e azione si concretizzò fino all’annullamento dell’io, dell’arte e dell’azione stesse, della carne e dello spirito, della sessualità e della memoria, della penna e della spada.
Come essere in quota, sopra i 25000 piedi.

E come in quell’ultima rappresentazione dove l’immaginazione, quella stessa immaginazione che Mishima ha sempre cantato fin da giovane, come nella citazione iniziale, non serve più, in quanto per un ultimo, drammatico e spettacolare momento penna e spada si possono finalmente armonizzare per il gesto finale. Carne ed intelletto ora non sono più separate.
Ed infine il cerchio si chiude, portando a compimento tutto quel che precedentemente era stato lasciato in sospeso: Nel momento in cui la lama squarcio la sua carne, lo splendente disco del sole si levo da dietro le sue palpebre ed esplose, illuminando il cielo per un istante.
Solo un istante, un momento, prima del buio.
Ma fu in quell’istante che la bellezza raggiunse il culmine e subito dopo si spense.

La decadenza morale portata dal capitalismo e dal progressivo sgretolamento della Tradizione, contro cui Mishima fino al suo ultimo proclama fece disperato appello, non venne arrestata, nonostante il clamore del gesto e la devozione dei suoi accoliti, ed il Giappone non venne purificato, ma Mishima Yukio, nato Hiraoka Kimitake, è un gigante della cultura la cui eredità resiste ancora oggi.
Il suo amico, mentore e maestro Kawabata Yasunari fu colpito e scioccato dal gesto e morì a sua volta suicida due anni dopo. Henry Miller, nel suo storico Riflessioni sulla morte di Mishima, disse:

In qualche punto, leggendo Mishima, mi sono imbattuto nella frase: Un’esplosione pirotecnica: la morte.
In opposizione a essa abbiamo un altro tipo di esplosione: il satori.
Fra loro c’è la stessa differenza che passa tra notte e giorno, tra ignoranza e illuminazione, tra sonno e veglia.
Malgrado tutto ciò che Mishima ha detto riguardo la morte, malgrado il fatto che dall’età di diciott’anni egli nutrì un romantico desiderio di autoannullamento, Mishima credeva nella pienezza del vivere, dell’essere vivo in ogni cellula, in ogni poro.
Essere pienamente consapevoli, svegliarsi dal profondo sonno nel quale siamo sprofondati Mishima fu uomo di passioni ed ideali, di contraddizioni e tormenti.

Attaccato alla vita ma desideroso di una morte eroica e pura. Difensore di valori legati alla Tradizione di un Giappone che non c’era già più ma che viveva in una casa in puro stile occidentale. Come tutte le grandi personalità la sua era una complessità autentica che viveva di sfumature, ma sempre legate all’utopia della purezza irraggiungibile nel mondo moderno. Esiste una sconfitta pari al venire corroso Che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo La morte è insopportabile per chi non riesce a vivere La morte è insopportabile per chi non deve vivere.


Penso che non ci sia modo migliore di concludere così e con le parole sopra citate di Miller e con quelle di Ferretti.
Curiosità: oltre ai CCCP, anche i Massimo Volume hanno omaggiato Mishima, seppur indirettamente, dedicando una pezzo, Meglio di uno specchio, uno dei più belli del gruppo, proprio a questo film di Schrader.
Schrader che gira con una bellezza di stile, in cui non mancano richiami pittorici alti, che forse non ha mai toccato a questi livelli, se non raramente, come ad esempio nell’ultimo First Reformed.

Articolo a cura di Riccardo Aniki