Gli anni ’70 sono conclusi, e con loro terminato il tempo delle contestazioni, del punk rock, della paranoia del post-Watergate (di coppoliana memoria e massima rappresentazione), del Vietnam e dei traumi che sono seguiti al lunghissimo e devastante conflitto perso, perfettamente immortalati per sempre nel definitivo capolavoro che è Il Cacciatore e da quello straziante inno americano che chiudeva l’epocale film di Cimino.
Una nuova decade è alle porte, quella dell’immagine, dell’edonismo reaganiano, del disastro di Chernobyl e della caduta del muro di Berlino e conseguente fine della guerra fredda e inizio della globalizzazione odierna.
In ambito artistico le contraddizioni si moltiplicano come in quello sociale.
In musica, dietro al bombardamento (i cui echi ancora oggi rimbombano nell’immaginario collettivo nel giudizio del periodo storico) di videoclip e di MTV, di Madonna e Michael Jackson, nascono e si sviluppano quelle esperienze umane e sonore della musica indie e underground, i cui semi germoglieranno negli anni ’90 con l’esplosione mainstream della scena di Seattle e del rock alternativo.
Un esempio per tutti: quello della storica etichette SST e dei gruppi a essi collegati.
In ambito cinematografico, nella mia personale – e quindi opinabile – visione delle cose, nessuno ha rappresentato esteticamente e cinematograficamente gli anni ’80 americani come De Palma, Friedkin, Mann e Paul Schrader.
Certo, il più pignolo può obiettare che più che altro i suddetti rappresentassero l’America californiana; ma d’altra parte, Los Angeles, Hollywood, la California in generale, the land of milk and honey, sono sempre stati al centro dell’immaginario cinematografico americano più che l’America profonda e rurale, al centro invece delle produzioni più piccole indipendenti a là Van Sant e Jarmusch.
E quindi oltre, certo, alla fantascienza, ai cyborg, ai viaggi nel tempo, ai cult riscoperti e di cui si nutre una serie di successo come Stranger Things, film come American Gigolo, Omicidio a Luci Rosse, Vivere e Morire a L.A. e Manhunter (quest’ultimo però di poco successo ai tempi), visti oggi rappresentano il meglio della mitologia degli anni ’80.
Film iconici, visivamente e concettualmente fortemente appartenenti all’epoca in cui vennero prodotti.
Che poi, però, immaginario cinematografico e realtà non sempre coincidano è un altro e complesso discorso.
Schrader, così come gli altri citati, ha da sempre, tuttavia, affondato le proprie radici intellettuali in diverse influenze culturali europee, che hanno fatto di lui uno dei più grandi autori della sua generazione, prima da straordinario sceneggiatore, poi (anche) come regista.
Taxi driver, Yakuza (capolavoro di Pollack), Complesso di Colpa (tra le migliori rivisitazioni meta-linguistiche hitchcokiane di De Palma) hanno aperto la strada alla creazione di un film come American Gigolo.
Così come Dreyer, Bertolucci, Camus, Dostoevskij, Bresson – artisti che trascendono assolutamente i propri terreni d’appartenenza – hanno posto le basi al lavoro di Schrader. American Gigolo, seppur visto oggi sia così legato, appunto, ad una estetica profondamente figlia del clima di un determinato periodo storico, anche ora, a distanza di quasi quarant’anni, non ha però perso niente del suo superbo fascino e della sua eleganza stilistica.
Il film, che uscì un anno prima dall’inizio ufficiale dell’era Reagan, mette in mostra i lati oscuri dell’America metropolitana, fatta di perversioni nascoste, meschinità, omicidi e macchinazioni.
In un susseguirsi di scene memorabili (l’inizio su Call Me, il piano sequenza con Gere che si allena, la scena erotica tra i due protagonisti, l’entrata di Julian nel locale gay), movimenti di macchina di classe, riprese notturne d’antologia.
Fino al finale, che cita esplicitamente Bresson (ai limiti del plagio, ma Schrader stesso non ha mai fatto mistero di aver liberamente scopiazzato Pickpocket, anche mentre scriveva alcune scene di Taxi Driver in cui De Niro camminava solitario per le strade newyorkesi).
Finale che citerà nuovamente anche ne Lo Spacciatore. Concludere con Bresson un film iniziato con Blondie: il genio di Schrader si vede anche da questi dettagli.
Il colto ed il pop entrambi, in egual misura, presenti nella riproduzione delle immagini.
Gere, che aveva alle spalle aveva un solo grande film girato (I Giorni del Cielo, capolavoro di Malick), divenne più che una star: una vera icona, al di là delle capacità recitative.
Un sex symbol universale, un nuovo prototipo di immagine e stile (i vestiti rigorosamente Armani).
A suo modo, American Gigolo è un classico del cinema, da amare senza remore.
Prima che, qualche anno dopo, Schader realizzasse quello che considero uno dei più bei film di ogni tempo, ovvero Mishima: A Life in Four Chapters.
Ma questa è un’altra storia.
E prima che, quasi trent’anni dopo, tornasse a riprendere tematiche e struttura nel suo quasi auto-remake The Walker, con un grande Woody Harrelson nei panni di un nuovo Julian, questa volta non più ai tempi appena precedenti all’inizio dell’era Reagan, ma in quelli della fine della presidenza Bush Jr (a tal proposito riproposta nel recente e splendido Vice di McKay).