Home Speciale Approfondimenti Ciclo Bergman: Fanny e Alexander (1983)

Ciclo Bergman: Fanny e Alexander (1983)

Recensione a cura di Caroline Freyaa Darko

“1907. La storia narra le vicende della famiglia borghese degli Ekdhal, dal punto di vista dei bambini Fanny e Alexander (in particolare quest’ultimo), figli del direttore del teatro locale.
Dopo la festa di Natale Oscar, padre dei due pargoli, morirà lasciandoli orfani e facendo divenire così vedova sua moglie. Ella verrà confortata dal pastore Vergèrus, il quale farà sì che la vita dei bambini cambi radicalmente, anche sotto tortura”.

Film testamento e omaggio al cinema-teatro, ”Fanny e Alexander” è un romanzo di formazione.
Una narrazione raccontata, descritta e messa all’opera dalla maestria registica del colosso del cinema, Ingmar Bergman.

Il prologo ci dà un assaggio di ciò che vedremo e ci dona il fulcro di tutta la pellicola, la morale base, detta dal personaggio di Oscar.

L’unico talento che io ho è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio e soprattutto mi piacciono le persone che abitano qui in questo piccolo mondo. Fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio.
In ogni modo riusciamo a dare a tutti quelli che vengono qui la possibilità, per qualche minuto, per qualche secondo, di dimenticare il duro mondo che è la fuori. Il nostro teatro è un piccolo spazio fatto di disciplina, di coscienza, di ordine e di amore ”.

02
Tutti insieme appassionatamente

Qui vediamo il tema che vede come protagonisti la vita, il teatro e l’arte nelle loro rappresentazioni massime.
Un’apologia artistica che Bergman ha descritto egregiamente.
Così come nella frase del film, così lui era in grado di avere quel medesimo talento nei confronti dello spettatore.
Fanny e Alexander” non mette in risalto i due bambini (che quasi fungono da contorno), bensì il dramma pirandelliano.
Il tipico rapporto tra essere e non essere, tra l’indossare la maschera e continuare a fingere in un mondo che vive di apparenze.

Questo ha la sua massima rappresentazione nella frase clou del pastore, la tipica figura negativa che Bergman ha associato a suo padre.

‘Ero solo una maschera mai messa a fuoco nella carne. Ho sempre creduto di piacere alla gente, mi vedevo saggio, aperto di idee e giusto. Mai avrei pensato che qualcuno avrebbe anche potuto odiarmi.”

Perché nella vita noi indossiamo maschere a seconda delle persone che incontriamo, schiavi d’essa.
Spesso però dimenticando di toglierla oppure… di indossarla.

03
Il piccolo Alexander Ekdahl

Ma ”Fanny e Alexander” è anche la rivoluzione della morte, il Thanatos che viene abbracciato ed analizzato. È una diversa chiave di lettura del decesso, un’analisi del Thanatos nella sue veste più brillante.
Come dice una frase dell’opera, siamo circondati da realtà diverse dalle altre, una sopra l’altra, tra cui la realtà dove viviamo e quella in cui siamo giunti a toccare la morte col palmo delle nostre mani e con la nostra stessa anima.

La morte colpisce all’improvviso e all’improvviso si spalanca l’abisso. All’improvviso la tempesta e la catastrofe ci sovrasta”, come dice Gustaf.

In rilievo è la fotografia spettacolare di Sven Nykvist, e quella scenografia che descrive perfettamente le varie fasi del film.
La cena di Natale, il fantasma, la prigionia e l’epilogo.
Quei colori caldi, il rosso, bordeaux e il bronzo, ci fanno capire quando è il momento in cui si è a casa, nel lusso, nella comodità, nella calma.
Mentre il grigio e il bianco ci rammentano  quanto sia asettica l’atmosfera e quanto ci sia tristezza, pericolo e dolore.
Bergman mette in risalto anche  il lato spirituale con Dio.
Lato che viene in un certo senso messo in primo piano (in tutta la pellicola non si fa altro che pregare, che innalzare l’altissimo, appigliarsi a lui e fidarsi della sua parola).

Tutto ha una vita, tutto è dio o il pensiero di dio, non solo il bene ma anche le cose più cattive”.

Se da un lato c’è la gente comune bigotta e fanatica, d’altra parte, l’Altissimo viene  sminuito, discriminato dalla figura più importante del film che è il protagonista Alexander.
La personificazione da bambino di Bergman stesso il quale ripudia un Dio che, secondo lui, appunto  non esiste.
Perché, se esiste ”è un dio di cacca e di piscio che vorrei prendere a calci in culo.”

03

Perché Alexander è chiuso, indossa questa maschera dura e nasconde le sue fragilità.
Alexander non vuole parlare di quello a cui sta continuamente pensando.
Occulta, non lascia capire i suoi pensieri, le sue ragioni, le sue emozioni.
E’ quasi di ferro.
Alexander è abbandonato a sé stesso.
Ha perduto il padre, ha dovuto lasciare una vita di comodità e serenità per essere rinchiuso come prigioniero in un luogo spoglio, dove viene picchiato e sottomesso da una figura austera e severa, quella del sacerdote.
E come si può, dopo tutto questo, avere fede in Dio? Come si può credere in un Dio?
Quando non hai nulla in cui credere e hai perduto ogni cosa, ti aggrappi all’illusione.
Le cose incomprensibili fanno uscire fuori di senno.
Un’opera quasi fiabesca, che a tratti sfiora persino l’horror e non dà tregua a meditazioni.

L’horror lo vediamo con le apparizioni dei defunti da parte di Alexander (suo padre, il pastore), nelle scene finali in cui lui non è a casa sua, non è a suo agio e viene a fare la conoscenza di un ragazzo particolare.
Orrore, lo troviamo nella scena di tortura.
Gli occhi della sorella del sacerdote sprigionano vero terrore, per quello che sta accadendo.
La paura vera più grande però, è la minaccia che è il vescovo Vergérus.
Una minaccia costante, che si aggrappa a te quando è in vita e continua a seguirti fin oltre la morte.

Non ti libererai di me”.

Così come Bergman non ha mai potuto liberarsi della figura di suo padre, del fantasma di questa essenza  opprimente e cattiva che l’ha tormentato, fino a desiderare un padre differente, un padre vero, Oscar nel film.
Una storia magistrale dall’incipit fino all’excipit.
Meravigliosa e drammatica, ci lascia con un po’ d’amarezza, proprio nell’epilogo, sereno e quasi di quiete dopo la tempesta.

Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono, l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni ”.

Perché tutto è più grande di noi e il bello deve ancora accadere.
Perché tutto è eterno, proprio come ”Fanny e Alexander”.