Il 2017, tra i tanti bei film che ha visto nelle sale cinematografiche di tutto il mondo, è stato un anno importante per un regista in particolare: il maestro del cinema folle giapponese, punto di riferimento per qualunque cinefilo, in special modo per chi ha un occhio di riguardo verso il cinema orientale, Takashi Miike, giunto, con questo Blade of the Immortal (L’Immortale, in italiano), al suo centesimo film. Una carriera ricca, ricchissima, quella del buon Takashi, il quale ha deciso di celebrare questo traguardo con un jidaigeki violentissimo e folle, perfettamente in linea con quell’estetica che è stata e tutt’ora è uno dei tanti marchi di fabbrica dell’eclettico regista di Osaka, portata a sempiterna gloria in quel capolavoro che è Ichi the Killer.
Seguiamo la storia di Manji, un samurai, ormai ronin, in fuga dopo aver ucciso il suo padrone corrotto. Una taglia viene messa sulla sua testa ed un bounty killer gli tende un’imboscata ed uccide Machi, la sorella del protagonista. In seguito a questa imboscata, Manji è ridotto piuttosto male e viene aiutato da una misteriosa donna dalla veneranda età di 800 anni che gli fa il dono dell’immortalità, inserendo nel corpo di lui dei vermi che chiudono immediatamente ogni ferita e riattaccano qualsiasi parte del corpo amputata. Passiamo, quindi, a 50 anni nel futuro, quando una ragazzina, Rin, vede il padre morire per mano di una banda che sta distruggendo tutti i dojo e la madre sparire. Chiede aiuto a Manji, che accetterà di divenire il suo bodyguard nella missione di vendetta della ragazza solo grazie alla straordinaria somiglianza tra Rin e la sorella uccisa 50 anni prima.
Pur trattandosi dell’adattamento di un manga, come fu per il già menzionato Ichi the Killer, Blade of the Immortal riesce a mantenere un’identità propria, distaccandosi dallo stile “fumettoso” (so che quelli giapponesi si chiamano “manga” ma, permettetemi la blasfemia, sempre fumetti sono) per collocarsi in una dimensione artistica personale, propria di Miike. Non si avrà nemmeno per un istante la sensazione di star guardando un adattamento, perché questo film vive di puro cinema. Certo, c’è la folle esagerazione tipica dei manga nipponici ma è presente solo perché rientra nelle corde artistiche del regista. Come nelle vene di Manji scorrono vermi, così in quelle di questo film scorre la più cristallina essenza del cinema, con tutta la pesante eredità che ogni jidaigeki moderno deve portare sulle proprie spalle: la tradizione è quella del jidaigeki degli anni ’50 e seguenti, quello del bushido ormai decaduto. Manji è un ronin trasandato, un incrocio tra Sanjuro (Toshiro Mifune) di Yojinbo, La Sfida del Samurai, uno dei tanti capolavori di Akira Kurosawa, e Kakihara, uno dei due protagonisti del pluricitato Ichi the Killer.
Nonostante il mio entusiasmo nel parlare di questa pellicola, essa non è esente da difetti, il più grave dei quali è la sceneggiatura. La scrittura del film, infatti, è assai penalizzata da dialoghi poco ispirati ma, soprattutto, da una durata davvero eccessiva, in rapporto al soggetto: in questo modo, le riflessioni sull’esistenza, sulla tensione dei vivi per la morte e sulla legittimità della vendetta perdono tutta la loro potenza, poiché vengono diluite su 140 minuti di pellicola, risultando, quindi, meno incisive di quello che avrebbero potuto essere. Anche lo svolgimento risente della lunghezza esagerata, risultando spesso ripetitivo, con ben pochi colpi di scena e spesso prevedibili.
Tuttavia, questo grosso difetto viene quasi totalmente messo in ombra dalla maestosità delle scene d’azione, adrenaliniche come raramente capita di vedere negli ultimi anni: per quanto riguarda il sottoscritto, il film degli anni ’10 che più si sia avvicinato alla spettacolarità dell’azione di Blade of the Immortal è The Man from Nowhere di Lee Jung-beom. Una regia capace di cogliere tanto i dettagli più truculenti senza mai scadere nel gore volgare, risultando sempre elegante ed in grado di proporre quadri chiari, precisi e, semplicemente, stupendi. Non ci sarà mai confusione nelle scene di combattimento, tanto grazie alla regia a dir poco perfetta, quanto grazie alle coreografie spettacolari: ricche di trovate, capaci talvolta di far distogliere lo sguardo, talaltra di strappare un sorriso. In certi casi, non numerosi, per la verità, si nota una palese influenza dell’azione cinese-hongkongese dei wuxiapian, in particolare nelle scene con protagoniste la killer Makie Otono-Tachibana, durante le quali si vedono salti inverosimili ed acrobazie al limite dell’umano.
Blade of the Immortal è la centesima prova di forza di Miike, si tratta, in conclusione, di un film assolutamente imperfetto ma in grado di superare le proprie imperfezioni, divertendo e facendo del male fisico allo spettatore. Un film da vedere e rivedere, facilmente recuperabile grazie alla sua presenza nel catalogo di Netflix.