Talvolta è impossibile parlare di arte in maniera oggettiva. Certe opere richiedono necessariamente che l’Io del fruitore si insinui nella loro essenza, alla ricerca di un’interpretazione che trascenda la materia di cui sono fatte e il volere dell’autore. Un esempio dei più classici è quello di un quadro d’arte moderna e/o astratta: in una tela bianca con un punto colorato c’è chi ci vede l’infinito, chi il senso della vita e chi, più semplicemente, un punto su una tela bianca. Perché l’arte è questo: non solo espressione dell’inconscio dell’artista ma anche del fruitore. Ciò che vediamo dietro il velo dell’apparenza di un’opera dice molto di noi stessi. Sembra essere conscio di ciò David Lynch, uno dei più apprezzati e discussi registi di sempre, capace di realizzare incubi di celluloide che lacerano la psiche dello spettatore, generando in lui confusione e disagio, ansia e paura, ma anche opere più pacate e delicate, come il bellissimo Una storia vera.
Nella sua lunga carriera, dividendosi tra pittura, lungo e cortometraggi, design e musica, ha saputo colpire lo spettatore con delle meravigliose pugnalate allo stomaco, sin dal principio. Già i suoi primi cortometraggi erano dei deliri visivi, come The Alphabet, Six figures getting sick (six times) o The Grandmother. Questa sua prima fase di sperimentazione si sublima poi nel suo primo lungometraggio, a mio avviso il film di gran lunga più angosciante e disturbante di sempre: Eraserhead. Spero vogliate perdonarmi se non citerò mai la traduzione in italiano del titolo ma la considero una vera e propria (passatemi il termine poco raffinato) scemenza.
Eraserhead è un film la cui trama è solo un pretesto per rappresentare gli angoli più bui dell’inconscio di Lynch e dello spettatore. Un bianco e nero che fa male, che accresce l’atmosfera irrespirabile tipica dei peggiori incubi. Henry è un ragazzo con delle evidenti turbe psichiche (non chiedetemi il perché dico ciò, a me pare più che ovvio, per qualche motivo, che non sia del tutto normale) che scopre, durante una cena a casa della famiglia della fidanzata, che sta per diventare padre. Nato, il figlio non mostra alcun legame di appartenenza al genere umano, essendo un essere deforme, con una grossa testa sporgente ed un collo molto esile, e i due genitori vanno a vivere insieme per accudirlo come una vera famiglia. Tuttavia, il “bambino” continua a piangere, tanto da far esasperare la madre, la quale, una notte, abbandona Henry e il piccolo e torna a vivere con i suoi genitori. Da allora, Henry dovrà occuparsi del figlio da solo e la sua vita diventerà nient’altro che un orribile incubo, con visioni di una donna dal volto deturpato da quelli che paiono essere due tumori alle guance e altri scenari angoscianti, accompagnati dal pianto insistente del figlio.
Numerose volte è stato chiesto al regista quale fosse il significato di questo film ma lui ha sempre insistito nel non voler dare una risposta, affermando che ognuno deve vederci quello che vuole, per il motivo esposto a inizio articolo. Una cosa è certa: quale che sia il significato di Eraserhead, di certo non è nulla di positivo. Quella che seguirà, data la “natura aperta” (come l’ha definita lo stesso Lynch in un’intervista a Stephen Saban) del film, sarà dunque una mia personalissima interpretazione, liberi di condividerla o di negarla.
“Quei figli che non ho voluto, sapessero la felicità che mi debbono!” (Emil Cioran, Confessioni ed anatemi)
In filosofia, l’antinatalismo è quella corrente di pensiero che riconduce la causa di ogni male, della sofferenza del genere umano alla nascita. Il momento in cui l’uomo viene messo al mondo sancisce la sua condanna a morte, è l’inizio di quella tortura che ha nome di “vita”. Numerosi sono i filosofi che hanno fatto dell’antinatalismo uno dei punti fondamentali del proprio sistema filosofico: tra i più importanti ci sono Emil Cioran, Giacomo Leopardi ed Arthur Schopenhauer. In ambito cinematografico, invece, io indicherei Eraserhead come il manifesto di questa filosofia. Numerosi sono gli indizi che mi hanno condotto a questa interpretazione del film. Innanzitutto, la reazione avuta da Henry dopo aver scoperto che la fidanzata è incinta: senza dubbio, è una reazione più che normale a questa notizia, però Henry non è solo sconvolto dalla notizia; Henry è spaventato, ha paura. Paura di diventare padre? O, forse, paura di aver condannato un essere innocente a quella vita che Schopenhauer ha definito come un pendolo che oscilla “di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi” (Il mondo come volontà e rappresentazione, Tomo II)? Non solo la sua reazione ma anche il bambino in sé sembra che esprima benissimo la tribolazione dell’esistenza: piange incessantemente e si ammala, piangendo ancora di più. La sua vita è semplice espressione dell’universale dolore umano: “Nasce l’uomo a fatica,/ ed è rischio di morte il nascimento./ Prova pena e tormento/ per prima cosa […]” scrive Leopardi in quello che considero come il suo massimo capolavoro, il celebre Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, che si conclude con una sentenza lapidaria, pesante come pesante è l’universo tutto, “è funesto a chi nasce il dì natale”.
Quando la moglie abbandona Henry e il figlio, in preda alla disperazione, l’uomo inizia ad evadere dalla realtà osservando il termosifone ed avendo visione della cosiddetta Lady in the radiator, una donna dal viso deturpato che, sorridendo, canta “In heaven” e che, sempre con il suo sorriso disturbante, schiaccia dei feti che piovono dal soffitto: ennesima dimostrazione dell’avversione di Lynch alla nascita. In paradiso, va tutto bene. Henry ha bisogno di questa fuga dal mondo reale per avere qualche istante di pace e piacere, un momento di riposo dalla vita opprimente e dal figlio, dal quale, tuttavia, è ossessionato, tanto che, in più di un’occasione, la testa di Henry viene sostituita da quella dell’essere deforme. Più passano i minuti, più il dolore del bambino aumenta e Henry sembra essere impotente dinnanzi alla sofferenza del figlio. Fino al finale. Alla fine, capisce cosa deve fare per aiutarlo. Come porre fine all’agonia del piccolo? Se lo avete già visto, non c’è bisogno che io lo dica; se ancora vi manca, sarebbe sbagliato dirlo.
Finalmente il pianto del figlio cessa. In Heaven everything is fine. Finalmente Henry si può ricongiungere con la Lady in the radiator. Anche lui, ora, può far parte di quel paradiso, stringendo la donna in un abbraccio luminoso. La Terra non è più un posto a cui lui appartiene. In Heaven everything is fine. In Paradiso va tutto bene.
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