Fin dove si spingeranno gli autori di American Horror Story, questo è un dettaglio che non ci è dato sapere. Ciò che è evidente, però, è come la serie ideata da Ryan Murphy e Brad Falchuk sia, dal 2011, una colonna portante per i giovani di tutto il mondo.
Attraverso storyline fresche e, per l’epoca, innovative, American Horror Story ha saputo donare un gusto frizzante al mondo seriale. Tuttavia, però, non sempre è stata capace di mantenersi costante nella riuscita complessiva di ogni successiva stagione. Se la serie antologica dei padri di Glee aveva accumulato nuovamente punti con American Horror Story: Cult, dimostratasi ansiogena e pungente, lo stesso non si può dire dell’ottava- e per ora- ultima stagione: American Horror Story: Apocalypse.
Seppur tornando a giocare in casa (riportando alla ribalta personaggi rimasti intrisi nel cuore del pubblico), non tutte le carte in tavola son state ben giocate.
La stagione, che vede come protagonista un tenebroso e vendicativo Anticristo, utilizza spiacevolmente troppi elementi mal sviluppati. Costruita quasi interamente su flashback solo in parte rimarchevoli, non riesce a creare interesse continuo nello spettatore. Il conflitto ”finale” tra il (temibile?) figlio di Satana e congrega di streghe (con a capo un’avvilita e poco carismatica Suprema) non è presentato come uno scontro leggendario. I maggiori esponenti della magia e dell’oscurità sono ridotti ad una ostentata e altalenante battaglia verbale e primitiva, a tratti puerile. Il tutto per spingersi verso un epilogo confusionario e scattante, dove però si può godere, finalmente, della celata sensibilità dell’antagonista e di un solenne riscatto.
Eppure l’oscillante lotta tra Bene e Male non è stata così tetra, né impetuosa, né diabolica come da aspettativa.
Una cosa però è chiara. American Horror Story non ha quasi mai fatto realmente paura, ma l’aspetto orrifico in Apocalypse risulta totalmente assente. Assente come il pathos sprizzato da Jessica Lange in Asylum, come la pazzia memorabile di Evan Peters in Murder House, come l’epicità finale di Coven. Assente come il sadismo di Hotel, il grottesco disturbante in Freakshow e il terrore persistente di Roanoke. Nemmeno l’atmosfera tormentosa e in perenne bilico di Cult, tra sette e abusi di potere, è lievemente eguagliata.
Eppure è anche vero che ogni stagione, essendo una serie antologica, è a sé. Ogni fase di AHS differisce dalla precedente, rielaborando determinati fattori per catapultarli in nuovi plot. Ma il plot assume davvero un valore in American Horror Story: Apocalypse?
Non è semplicemente un escamotage mal realizzato e solo accennato, per collegare personaggi prediletti e infilarli (alcuni forzatamente) in un contesto dissipato? Perché non basta un ritorno al passato per innescare nello spettatore un senso di soddisfazione, riempito unicamente da quello di familiarità. Pur possedendo alcuni punti a suo favore- il ritorno tanto auspicato di Jessica Lange, la scoperta del carismatico Cody Fern, la conferma della promettente Billie Lourd- American Horror Story, con Apocalypse, si introduce involontariamente come parodia di se stessa.
Perché l’immaginario di Murphy e Falchuk non era mai stato, prima d’ora, così Pop.