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American Gods è un capolavoro del mindfuck

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Tratta dall’omonimo romanzo di Neil Gaiman, American Gods è trasmessa in America da Starz mentre è disponibile in Italia tramite Amazon Prime.

Se Starz è sinonimo di sesso e violenza a profusione, certamente American Gods rispetta in pieno tali canoni, ma qui si sta su un altro livello:

ci sono estese scene di sesso omosessuale, donne che inghiottono i propri partner dalla vagina, zombie che menano come fabbri… ma non commettete l’errore di giudicare da queste parole AG, perchè vi perdereste una serie davvero notevole sul piano estetico ma soprattutto narrativo.

E’ praticamente impossibile non rimanere totalmente sconvolti e confusi dai primi episodi, dove in una manciata di minuti il protagonista – Shadow – si ritrova fuori di galera, vedovo, impiegato di un uomo dai dubbi modi, pestato più volte da gente ancora più strana.

Passerà del tempo prima di iniziare a capirci qualcosa, ma come il titolo suggerisce, il nostro si ritroverà suo malgrado in mezzo a una lotta tra divinità del passato contro quelle presenti.

Una definizione a dir poco riduttiva: l’universo degli dei è vasto e articolato, e in alcuni episodi viene espanso ulteriormente a inizio puntata con una – in alcuni casi apparente – digressione rispetto la trama.

E’ entusiasmante vedere come venga riletta la mitologia di divinità e simili noti a livello mainstream (vedi il Leprechaun, che tutto sembra tranne che uscito dal popolo delle fate; e cosa non possono fare certe sue monete..), talvolta con un aggiornamento in chiave moderna; in altri casi si farà la piacevole scoperta di divinità meno note. In questo crogiolo di personaggi, il capo di Shadow (il solito ottimo McShane) è Mercoledì, atto a reclutare le divinità antiche; diciamo pure che non è necessario arrivare all’ultimo episodio per capire il suo nome.

Non sono da meno i nuovi idoli: con poca sorpresa, essi incarnano internet, la tv e la globalizzazione.

Una incredibile Anderson nei panni di Media

La Anderson è meravigliosa nei panni di Media, divinità la cui peculiarità è di comparire di volta in volta assumendo la forma più adatta al contesto, plasmandosi ovviamente a immagine e somiglianza delle star, appunto: come non citare la sua presenza come David Bowie.

Mentre per le divinità l’unica cosa davvero da temere è l’essere dimenticati, gli umani si troveranno in alcuni casi a poter persino eludere la morte, almeno per un pò.

Ma tutto questo da solo non sarebbe sufficiente per elevare AG a must-see; nè, forse, il tripudio visivo che scene oniriche, manifestazioni mostruose e colori sparati portano alla nostra retina (già a partire dalla psicadelica sigla, non un semplice, causale agglomerato di stile). La vera potenza di AG sta però nel regalarci

un continuo rimescolamento delle regole del gioco narrativo, che mai permette di render prevedibile il prossimo minuto di visione.

Il settimo episodio ne è forse l’esempio perfetto: in barba alla classica escalation di eventi che dovrebbe preparare tutti al gran finale, AG si gioca una divagazione lunga quasi l’intera puntata, approfondendo unicamente la backstory di un personaggio, per giunta con uno scorrere degli eventi lineare: totalmente distante dallo stile degli altri episodi, in cui ci si è ritrovati in balia di eventi assurdi tanto quanto il povero Shadow

Da non perdere; e adesso rifacciamoci gli occhi con la sigla

 

 

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Direttore e Fondatore

Il lavoro e la vecchiaia incombono, ma da quando ho memoria mi spacco di film di fantascienza, dove viaggio di testa fino a perdermi, e salto in piedi sul divano per dei tizi che si menano o sparano alla gente come fossero birilli. Addolorato dalla piaga del PG­13, non ho più i nervi per gli horror: quelli li lascio al collega, io sono il vostro uomo per scifi, azione e film di pistolotti metacinema/mental/cose di finali tripli.