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VENEZIA 78: AMERICA LATINA

La periferia laziale con i suoi ecomostri vestiti da ville, assolata eppure piena di lati oscuri e contraddizioni.

È questo il contesto in cui, chiaramente, i gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo si trovano più a agio nelle loro narrazioni.  Enfants prodiges del cinema italiano, con la doppietta “La Terra dell’Abbastanza” e “Favolacce” che li ha consacrati ad autori di talento e a vera boccata d’aria fresca per il cinema italiano, i D’Innocenzo tornano con questo “America Latina” dopo la vittoria dell’Orso d’Argento a Berlino nel 2020.
Ma quando si è detto già molto, perché continuare ad attingere da una vena che, forse, potrebbe essere esaurita?
Se un certo tipo di rappresentazione aveva una sua potenza narrativa in “Favolacce”, in “America Latina” la narrazione è fumosa e si perde nella volontà di sottrarre, di togliere per cercare di dare più respiro di interpretazione a scene e situazioni, corredando la storia di indizi che aprono a più chiavi di lettura, eppure avendo come risultato solo una certa confusione.

Elio Germano

A tratti con scelte squisitamente da thriller, il film sceglie il suo grembo negli inferi metaforici della cantina del dottor Sisti, luogo a metà tra realtà e allucinazione. Ma se non fosse per la prestazione monstre di Elio Germano – ormai attore feticcio dei D’Innocenzo – il film non reggerebbe per i 90 minuti della sua durata, non eccessiva eppure importante quando è difficile trovare una direzione narrativa.
Qualche ottima trovata registica, tendente allo sperimentale e tecnicamente inappuntabile come ogni lavoro dei D’Innocenzo, il film si perde però in una sceneggiatura non all’altezza di chi ha realizzato quel capolavoro grottesco di “Favolacce”: “America Latina” esplora l’oscuro tentando di rimanere in quello stesso solco, ma qui troppo enfatizzato e caricato ed ottenendo perciò un effetto dispersivo e poco chiaro, risultante in un’occasione persa.

Articolo a cura de La Sposa