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L’altro volto della speranza – Recensione

Wikström, un uomo alle soglie della pensione, dopo aver messo fine al suo matrimonio, decide di ricominciare la sua vita in un ristorante. Lo fa grazie ad una vincita al gioco d’azzardo e ad un gruppo di curiosi personaggi che animano la periferia di Helsinki.  

Contemporaneamente Khaled, giovane rifugiato siriano in fuga da Aleppo, cerca di ottenere, senza riuscirci, un visto dal governo finlandese. Khaled decide allora di fuggire e trova in Wikström e nel suo personale, accoglienza, un lavoro come inserviente e solidarietà. Tanto che il rifugiato siriano, riuscirà ad ottenere grazie a loro dei documenti falsi e il sostegno per rintracciare la sorella di cui ha perso le tracce dopo la fuga dalla Siria.

Aki Kaurismäki ha sempre messo l’uomo al centro delle sue pellicole, la dignità e il valore di tutte le persone a fronte del giudizio parziale e/o trasversale dei campanilismi ideologici, teologici o razziali. In tal senso il suo sguardo solidale si riallaccia all’umanesimo novecenteco bressoniano.

Pâtissier dell’orrore civile, Kaurismäki sa dosare con estrema eleganza le giuste parti del gâteau geopolitico europeo. Consapevole della disillusione e delle responsabilità del vecchio continente, il regista finlandese volge lo sguardo al concetto più umano del termine comunità. Raggirando il buonismo nostrano e forte dell’imprinting da Welfare State nordeuropeo, l’autore punta il dito verso le forze del male. Burocrati e le false e facili dietrologie. Il suo sguardo è sempre apparentemente distaccato, forzando ancor di più, se possibile, gli stilemi del suo cinema. Tanto in questo, quanto in tutta la sua lunga filmografia, troviamo il «febbrile distacco» di Antonioni e la sua staticità estetica. Il suo approccio cinematografico si tiene, da ormai 30 anni, ben ancorato alle matrici antiche e moderne del pensiero filmico di autori come Renoir, Melville, Godard,e soprattutto Ozu. Noir, comicità e dramma fusi insieme per dar vita a personaggi, prima di ogni cosa umani. Non siamo una serie di stati limitrofi e continenti divisi da mari o «imaginary borders», bensì una comunità composta proprio da esseri umani.

Ognuno con la propria storia.

La propria lingua.

La propria cucina.

Non è un caso che «L’altro volto della speranza» abbia come protagonista proprio un ristorante gestito da persone diverse ma uguali. Citando Jfk «tutti noi abitiamo questo piccolo pianeta, respiriamo la stessa aria, ci preoccupiamo per il futuro dei nostri figli, e siamo tutti mortali». In tal senso Kaurismäki riprende il discorso da dove lo aveva lasciato sei anni prima con il «Miracolo a Le Havre».

Forse, rispetto a pellicole come «Calamari Union» (1985), ad «Ariel» (1988), ma soprattutto a «Ho affittato un killer» e «Vita da bohème» dei primi novanta, il regista finlandese non ha la stessa verve tecnica. Alla sua anarchia formale è sopraggiunta una maggiore consapevolezza, quella di far parte di un’élite di “auteurs” che portano al cinema la classe borghese mitteleuropäisch. In qualche maniera conforta, con fare paternalistico, la falsa solidarietà di chi ogni giorno tweetta di stragi siriane dal proprio I-Pad.

Ma questo non riguarda Kaurismäki, la sua analisi è giusta, onesta e sentita. Il problema sono proprio gli esseri umani in cui lui ripone tanta fiducia.

 

Recensione a cura di Giuseppe Silipo