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Akira Kurosawa e il Noir: Anatomia di un Rapimento (1963)

Probabilmente, “Anatomia di un Rapimento” è il film più occidentalizzato della filmografia di Akira Kurosawa e, dunque, il più accessibile al pubblico di massa non orientale. Come si intuisce dal titolo, la storia ruota attorno ad un rapimento.

Gondo (Toshiro Mifune, attore feticcio di Akira Kurosawa) è un arrivista e sta per concludere un affare che lo porterà ad essere il maggior azionista dell’azienda per cui lavora, quando, improvvisamente riceve una chiamata: l’uomo all’altro capo della linea dice di avere rapito suo figlio e chiede un riscatto gigantesco, 30 milioni di yen (oltre 460 milioni delle nostre lire, dato l’anno di realizzazione del film, ovvero, 239 mila euro circa). In verità, il bimbo rapito è il figlio dell’autista di Gondo. Il protagonista, inizialmente, è combattuto. Però decide di pagare il riscatto, diventando un eroe, e, da quel momento, inizia la caccia al rapitore.

Gondo (Toshiro Mifune) riceve la fatidica chiamata.

Il film è diviso in due parti, molto diverse tra loro. La prima è completamente ambientata all’interno della dimora di Gondo ed è molto claustrofobica: non abbiamo mai una vista sull’esterno. Il soggiorno, ambiente principale di questa parte, diventa un diamante di tensione, rabbia e frustrazione. Lo spettatore si sente perfettamente coinvolto, come se fosse un personaggio attivo della storia. Pochissimi sono i momenti in cui abbiamo una visione dell’esterno: quando Gondo esce sul balcone per prendere una boccata d’aria. Ma le finestre vengono oscurate, sotto l’ordine del rapitore, quando la polizia interviene, rendendo l’atmosfera ancora più opprimente.

Pur avendo una struttura tipica del film noir, viene eliminato un elemento fondamentale del genere: il mistero dell’identità dell’antagonista. A circa metà film vediamo in volto il rapitore ma di lui non sappiamo nulla. In questo modo, ci sentiamo impotenti: vorremmo poter aiutare la polizia a trovarlo ma non possiamo.

Tutta la seconda parte del film è ambientata quasi esclusivamente all’esterno, nei bassifondi in degrado di una città tipicamente giapponese. Vedendo il mondo in decadimento catturato dalla camera di Kurosawa, quasi rimpiangiamo la tensione e l’ansia della prima metà della pellicola: vicoli stretti e abitati da drogati, che ricordano, nelle movenze, i zombie dei futuri film di George Romero; strutture malridotte e vissute da persone corrotte nell’animo, animo rispecchiato alla perfezione dai loro corpi profondamente imperfetti. Gli ambienti aperti sono ancora più claustrofobici della casa di Gondo. Proviamo compassione per le persone degradate ma, al tempo stesso, ne siamo repulsi.

Tossicodipendenti raffigurati come zombie.

Per approfondire ulteriormente questa recensione/analisi, sono costretto a fare uno spoiler che riguarda le motivazioni che hanno spinto il rapitore a fare quello che ha fatto. Uomo avvisato …

Bertolt Brecht una volta scrisse: “I poveri sperano nella giustizia, i ricchi nell’ingiustizia”. Rapportata alla cronaca odierna, mai citazione fu più esatta. Ma Kurosawa racconta una storia in cui questa situazione è completamente ribaltata: infatti, il rapitore è un ragazzo con difficoltà economiche che passa il giorno a guardare la casa di Gondo, che, abbarbicata in cima ad una collina, domina l’intera città, suscitando l’ira del ragazzo, il quale, per uscire dal proprio status di “povero”, ricorre ad un mezzo illegale. Questo dualismo viene esternato sin dal titolo originale, “Tengoku to jigoku”, letteralmente “Paradiso e inferno”, in cui, ovviamente, il mondo della ricchezza è il paradiso e, viceversa, quello della povertà è l’inferno.

Articolo a cura di Federico Querin