In questo concitato thriller politico c’è un minuscolo dettaglio dal forte valore simbolico: un piccolo dinosauro di plastica che Olivia Walker, l’ufficiale interpretata da Rebecca Ferguson, porta con sé durante l’intera crisi. Apparentemente un semplice ricordo del figlioletto, il filo invisibile che la lega al mondo esterno, ma al contempo rappresenta l’animale preistorico per eccellenza, simbolo dell’estinzione.
Un ammonimento silenzioso sulla ciclicità della vita.
Un lancio missilistico intercontinentale, senza rivendicazione, viene rilevato inaspettatamente sopra l’Oceano Pacifico nord-occidentale, direzione Chicago. Non c’è un perché e neanche un antagonista chiaro. Il film procede quindi con una narrazione multiprospettica dalla squadra radar in Alaska alla Situation Room della Casa Bianca, fino al presidente (interpretato da Idris Elba) che deve, con poche e confuse informazioni, decidere se reagire provocando l’apocalisse o accettare le conseguenze di un possibile day after nucleare.
A House of Dynamite non è un semplice film di genere che riemerge dalle paure della Guerra Fredda, quando non si capiva come facesse Defcon 4 ad essere meno preoccupante di Defcon 2.
Il nuovo film di Kathryn Bigelow (chi meglio di lei) è un’indagine inquietante sul potere, sulla solitudine umana di chi lo detiene. Sulle responsabilità e l’insicurezza di un mondo governato da tecnologie miliardarie che promettono stabilità e protezione, ma che poi alla fine si riducono al cercare di “colpire un proiettile con un altro proiettile”.
La Bigelow ha detto che voleva fare un film che “esplorasse la follia di un mondo che vive all’ombra costante dell’annientamento eppure ne parla raramente”.
Ora, immaginate se al posto di Idris Elba a prendere una decisione tanto delicata ci fosse uno che ha invitato i suoi compatrioti a bere l’Amuchina per fronteggiare una pandemia.










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