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Django Unchained

Questa settimana il nostro amico e fan Marco Sambiagio ci propone la sua opinione sul tarantiniano Django Unchained

 

Django Unchained è il secondo anti-remake di Quentin Tarantino, molto simile per struttura al precedente Bastardi senza gloria. Le citazioni non mancano sebbene questo film non abbia nulla in comune col film Django (del 1966, regia Sergio Corbucci) da cui ha rubato il titolo. La principale fonte d’ispirazione non va neppure cercata tra i vari spaghetti western, bensì in “Addio zio Tom“, uno degli ultimi Mondo-movies di Jacopetti e Prosperi. Altri riferimenti si possono trovare ne I quattro dell’apocalisse di Lucio Fulci. La vicenda si svolge in America, due anni prima della guerra di secessione. Lo schiavo Django trova la libertà grazie al fortunato incontro col cacciatore di taglie Schultz che lo ingaggia affinché lo aiuti a stanare una banda di lestofanti. Come ricompensa per l’aiuto ricevuto, Schultz promuove Django da aiutante a suo socio e s’impegna di accompagnarlo a ritrovare la moglie Broomhilda. La consorte di Django è prigioniera in una ricca casa, gestita dal giovane Calvin subordinato al suo stesso servo nero che lo ama come un figlio, il vecchio bastardo Stephen. Insomma Django è nero, proprio come lo era per Sergio Corbucci, solo che in quel caso Nero andava scritto con la N maiuscola. Di Nero (Franco ovviamente) possiamo gustare un cameo verso la metà film. Django Unchained rappresenta a oggi il maggiore successo economico per un film di Quentin Tarantino, con un introito globale di circa trecentocinquanta milioni di dollari.

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Nonostante questo record finanziario, tra i cinefili più incalliti c’è molta divisione, per alcuni siamo di fronte a un capolavoro pop, per altri si tratta del film più commerciale di Tarantino. In difesa di quest’opera si può dire che è tutt’altro che un film vuoto. Le accuse di razzismo, mosse dal collega ed (ex?) amico Spike Lee, sono del tutto infondate. Django Unchained è un film ferocemente critico nei confronti dell’America schiavista di fine ottocento.

È doveroso specificare che non siamo di fronte a un resoconto realistico, sebbene i costumi e le ambientazioni siano perfettamente credibili, la musica è invece sin troppo varia e conferisce un tono post moderno al tutto. I negrieri sono rappresentati in maniera surreale, si comportano come antiche e crudeli divinità pagane che disfano e organizzano la vita dei propri “sudditi”. “Lo spettacolo più bello è quello del mito” diceva Sergio Leone, proprio su questo punto Tarantino incontra il suo idolo. A un’attenta lettura lo scopo del protagonista non è semplicemente quello di ritrovare la sua amata e sconfiggere i suoi nemici quanto raggiungere una piena coscienza di se stesso e avanzare nel labirinto dell’esistenza.

Fa riflettere che l’unico personaggio del film a non essere un razzista sia il tedesco Schultz (interpretato da Christoph Waltz) fattore che s’incastra a Bastardi senza gloria con cui Django Unchained va a comporre una bilogia il cui tema centrale è che gli americani sanno essere molto più razzisti degli europei. I duelli sono del tutto assenti. Gli sguardi in cagnesco e le inquadrature Leoniane servono a creare tensione nei momenti di calma apparente, quando i protagonisti sono seduti a tavola per mangiare una fetta di torta mentre discutono sulla superiorità dell’etnia bianca. Come Peckinpah insegna, le sfide all’arma da fuoco accadono all’improvviso.

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Non importa se buoni o cattivi, i personaggi s’impallinano nei momenti di distrazione, persino alle spalle. Questo discorso sarà portato avanti da Tarantino nel suo film successivo, “The hateful eight” e qua si nasconde l’unica vera lezione storica offerta dal racconto: Nel selvaggio west?! Ma quali duelli? Ci si sparava alle spalle.

Il finale parla chiaro. Per sopraffare i suoi nemici Django diventa cinico e spietato. In buona sostanza, lo scontro finale consiste nel nostro “eroe” che spara su una donna disarmata e un vecchio zoppo. Non proprio quello che ci si aspetta da un film classificato come “commerciale”.

L’Academy ha deciso di conferire a Waltz l’Oscar come miglior attore di supporto. Francamente ho preferito di molto le interpretazioni di Leonardo DiCaprio e Samuel L.Jackson qui al loro meglio. DiCaprio riesce a dar vita a un personaggio magnetico, un raffinato ma crudele americano del Sud. Facendo sfoggio della sua incredibile voce blues (meravigliosamente doppiato da Massimo Corvo) il buon L. Jackson riesce a rappresentare uno schiavo nero in carriera, una sorta di kapò dispotico ancor più razzista e spietato dei padroni bianchi. Stephen è un personaggio austero, perfettamente credibile nel suo contesto. Jamie Foxx pare scomparire davanti a questi giganti dell’acting ma nel complesso offre una discreta performance che non fa rimpiangere l’assenza di Will Smith. Il sopravvalutato Will Smith fu scartato da Tarantino perché pretese modifiche alla sceneggiatura del film.