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Una luna chiamata Europa: Il cielo sopra Budapest

“Giove ha 67 lune conosciute. La quattro più grandi sono state scoperte da Galileo Galilei nel 1610. Una luna si presume che abbia uno oceano salato sotto la sua superficie ghiacciata. Questo potrebbe rappresentare la culla di nuove forme di vita. Questa luna è stata chiamata Europa”

Si apre con questa didascalia la nuova criptica opera del regista ungherese Kornél Mundruczó. Partiamo dal presupposto che questo giovane regista, da anni ospite fisso al Festival di Cannes con le sue pellicole altamente allegoriche, sia uno degli autori più promettenti del panorama europeo. E’ strano pensarlo, guardando la sua filmografia. Nessuno dei suoi film ha mai completamente convinto. Il suo realismo magico, nel DNA della settima arte ungherese, si divide sempre tra la “suspension of disbelief” esasperatamente metaforica e temi di attualità, intensi e diretti. Due anime che però l’autore non riesce mai o quasi mai ad allineare. Non fa eccezione Una luna chiamata Europa o Jupiter holdja nel titolo originale che sta per “La luna di Giove”.

“Non esiste un posto immune dai tormenti della storia” dice uno dei protagonisti. E probabilmente non lo è neanche l’attuale continente europeo in un momento storico così delicato. Quella bisettrice rappresentata da paesi come appunto la madre patria di Mundruczó, continua ad essere così ostinatamente nazionalista e tanto violenta nei confronti degli immigrati.

La sceneggiatura di Kata Wéber, collaboratrice di Mundruczó, anche per il precedente White God – Sinfonia per Hagen, parte dall’arrivo in Ungheria di Aryan (Zsombor Jéger), giovane rifugiato siriano figlio d’un carpentiere. Trapassato dalle pallottole di un poliziotto, appena al confine, il ragazzo scopre non solo di non essere deceduto, ma di aver acquisito la fantastica facoltà di librarsi per aria. Un mutante degno della lega di Charles Francis Xavier. Quindi c’è il dottor Stern che rimasto impressionato dal “superpotere” del giovane siriano, decide di sfruttarlo per arricchirsi ai danni dei malati del suo ospedale, ai quali promette un miracolo presentando Aryan come un angelo, sceso in terra per redimere i peccati e curare gli storpi e i malati.

Ovviamente le scene in cui Aryan vola sopra i palazzi di Budapest e le teste di cuoio della polizia reazionaria e violenta, lasciano senza fiato. Mundruczó non perde l’occasione per mostrare il suo cinema muscolare, com’era successo per l’apocalisse canina di White God.

Ma alla fine si fa fatica a comprendere a pieno l’elemento allegorico della pellicola. Si ha la costante impressione che la metafora prenda il sopravvento sulla trama, portando a spasso lo spettatore senza preoccuparsi di quale sia il reale punto di arrivo. Forse il non luogo delle opere di Mundruczó sono solo enormi e pirotecnici fuochi d’artificio. Una sagra di paese piena di giostre e zucchero filato. Emozioni fine a se stesse. Forse un autore in attesa di migrare negli States. D’altronde se riesce ad illudere tanto bene e con tanta magnificenza con così pochi mezzi, immaginate cosa potrebbe fare questo ragazzo con gli assegni degli Studios. Forse come in “Partitura incompiuta per pianola meccanica” è un po’ il Platonov di Anton Čechov. Cinico e impotente davanti alla vacuità ideale e morale del mondo in cui vive. Di questa Europa, di questo inverno intellettuale.

“Tu sei qui per insegnarci qualcosa, la gente ha dimenticato di alzare lo sguardo viviamo isolati nelle nostre gabbie, però c’è stato un tempo in cui molta gente faceva sacrifici per svariate ragioni, e chi è venuto dopo ha fatto troppo in fretta a dimenticarlo”.

Un opera complessa questa Luna di Giove, da rivedere, esattamente come il suo regista.

Da ascoltare le musiche di Jed Kurzel (The Babadook, Alien: Covenant) che ricorda i nostrani Mokadelic di Gomorra.