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Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza – Recensione

Con Die wand, film austriaco di Julian Pölsler ci trovavamo di fronte ad un romanzo a cui erano state aggiunte immagini e voce narrante per renderlo pellicola.
In Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza invece siamo invece dinanzi ad un un quadro in lento movimento.

 

Romanzo fatto film nel primo caso, quadro divenuto lungometraggio il secondo.
E la struttura, la staticità del quadro, i simbolismi che ogni dipinto hanno, nel film di Roy Andersson si notano eccome.
A cominciare appunto dal titolo che si ispira all’opera Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio, per poi continuare con altri particolari.
Un dipinto può essere visto come un puzzle, un insieme di pezzi uniti tra loro.
La stessa cosa che accade in questo film.
Ci sono tante storie.

Ci sono tante strane storie ….

Trentanove per l’esattezza, dopo le prime tre che sono Tre incontri con la morte, tutte slegate completamente dal punto di vista dei fatti narrati ma tenute insieme da un unico filo conduttore.
Due buffi, impacciati, e molto pallidi (cosa comune a qualsiasi attore della pellicola) venditori di oggetti divertenti da utilizzare alle feste.
Dal punto di vista della trama il film è tutto qua.

Perchè non c’è bisogno di raccontare il nucleo delle sottostorie del lungometraggio, o toglieremo la maggior parte dell’aspettativa o della curiosità verso l’opera.
Ed allora possiamo analizzare quelli che sono i messaggi e gli altri elementi del film di Andersson.
Innanzi tutto i racconti didascalici hanno come tema comune quello di una voglia di vivere ed entusiasmo molto tendente allo zero.
I movimenti degli attori sono rallentati, la loro carnagione è quasi bianca, cadaverica.

Strani esperimenti…..

Sembrano degli zombie, in una pellicola che non ha i non morti come protagonisti ma che in un certo senso ne ricicla ottimamente il tema centrale.
Le persone non hanno vitalità.
Sono per la maggior parte anziane, e sono come morte dentro, quindi a loro modo, zombie.
Molti di loro nelle varie situazioni grottesche ed ironiche del film non sanno neanche perchè e per come siano li.

Sembrano proprio fuori luogo.
Quasi a voler rimarcare quel senso di vuoto e di spaesamento che colpisce oggi una buona fetta della civiltà contemporanea.
Per ognuna delle storie abbiamo un unico piano sequenza che la fa da padrone, il che ci da un forte richiamo a quel senso di distacco del regista, e di noi spettatori da quello che sta succedendo che richiama anche il personaggio del titolo, quei piccioni che spesso e volentieri ci vedono districarci in una vita frenetica guardandoci dall’alto con un aria saccente e quasi completamente spoglia di qualsiasi emozione.

Un senso di confusione ed isolamento dell’umanità raccontata dal regista con attori / attrici dall’aspetto cadaverico.
Personaggi che non si sorprendono quasi per nulla di fronte alle bizzarre situazioni che capitano durante il film.
Il tutto condito con colori freddi e monocromatici per quanto riguarda la sceneggiatura e la fotografia.
Un film che con la sua malinconica ironia strizza l’occhio ad alcune pellicole di Luis Bunuel e al teatro dell’assurdo di Beckett, atto finale di una trilogia di lungometraggi cominciata con altre due opere del regista svedese, Canzoni del secondo piano (vincitore a Cannes 2000 del premio della giuria) e You, the living  del 2007.

Si balla ma l’entusiasmo è sempre basso….

Un film che ci presenta una realtà umana molto ingrigita, vecchia, spaesata e spenta.
Una pellicola che tuttavia ci fa comunque divertire e sorridere (un po’ amaramente).
Soprattutto in quei momenti in cui la morte la fa da padrona (la scena nella nave è veramente fantastica).

Il film ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra d’arte Cinematografica di Venezia del 2014.