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True Detective 3- Un giudizio conclusivo

Giunti al capolinea della terza stagione di True Detective, è arrivato il momento di tirare le somme dopo il finale che ha lasciato un po’ tutti spiazzati.

Nessuna retorica, nessun colpo di scena. La risposta che Hays e West hanno faticosamente cercato per più di trent’anni non poteva essere più banale, scontata. L’avevano sempre avuto sotto gli occhi quel nome, Hoyt. Eppure, per una svariata serie di motivi, mai erano riusciti a chiudere il cerchio. Problemi personali, indagini insabbiate, riluttanza degli abitanti del luogo, la stessa incapacità dei due detective, avevano reso la soluzione, apparentemente vicina, irraggiungibile. Certo mancavano i dettagli, ma un po’ tutti noi spettatori già eravamo arrivati ad una conclusione, abbastanza fedele alla realtà. Tutte le congetture più azzardate, i voli pindarici, le teorie astruse si sono rivelate inutili. Perché dunque un finale che potrebbe lasciare delusi molti spettatori?

Partiamo dunque dal titolo stesso della serie, True Detective, il vero detective. Chi è dunque il vero detective? È questa la domanda che si pone anche il nostro Nick Pizzolatto, a cui vuole trovare una risposta. E finalmente sembra riuscito nel suo intento. Il True Detective non è altro che una persona come le altre, con i suoi difetti, le sue debolezze, i suoi problemi. Spesso incapace di affrontare le difficoltà che gli si parano davanti, condizionato dal mondo che lo circonda, il vero detective viene messo a nudo davanti alo spettatore. Di conseguenza il caso Purcell passa in secondo piano, è semplicemente la cornice in cui inserire i personaggi, l’ambiente dell’esperimento di Pizzolatto. Esperimento ai limiti dell’iconoclastia, dal momento che smantella la figura del detective amata e apprezzata dai più.

L’ultima intuizione di Hays

Quello che emerge dall’indagine di Pizzolatto non è altro che un inetto, incapace di imporre se stesso e raggiungere gli obbiettivi.

Infatti nelle scorse stagioni i protagonisti erano, chi più chi meno, oltre l’uomo comune, per capacità decisionali, intuito, azioni. E non importa se alla fine riuscissero nel loro intento, dal loro agire si intuiva che avessero quel quid per elevarsi al grado di eroe, o antieroe. West e Hays al contrario mancano totalmente di queste peculiarità. Non solo non riescono a risolvere un caso che, come dice West, è uno dei tanti che alla fine rimarrà irrisolto, ma finiscono per farsi trascinare dal suo sviluppo negativo. Hays infatti chiude brutalmente la sua esperienza da detective, dopo essere stato in precedenza umiliato e degradato. Andrà a lavorare come addetto alla sicurezza in un college, con la sola Amelia che, dopo anni di litigi e screzi, sarà l’ unica a supportarlo ed aiutarlo. West invece finisce per isolarsi dal mondo, disilluso e deluso da tutto e tutti, relegandosi ad un forzato esilio in compagnia dei suoi cani.

Pizzolatto riesce egregiamente nel suo intento, sfruttando una struttura narrativa che si chiude alla perfezione. Nel 2015 Hays, grazie ad un illuminazione mentre legge il libro della moglie, capisce dove si trova Julie Purcell. Tuttavia, una volta recatosi all’indirizzo, viene colpito da una tremenda amnesia che lo lascia inebetito. Non si ricorda più dove si trova, cosa sta facendo. Ed ecco il colpo di genio di Pizzolatto. La stessa Julie, ormai adulta e con una figlia, lo vede girovagare spaesato per il giardino e si offre di aiutarlo. Assistiamo dunque al rovesciamento dei ruoli, al detective che viene soccorso, in un momento di smarrimento, da chi lui stesso doveva aiutare.

Hays sembra finalmente sereno

Il completo tracollo della figura del detective? Forse, certamente non la sconfitta di Hays.

Proprio in questo momento di difficoltà, in cui sembra toccare il punto più basso, per la prima volta il nostro detective si abbandona alla sua debolezza. E scopre di non essere solo, di non esserlo mai stato. Prima Amelia, ora i figli e il suo amico West, c’è sempre stato qualcuno che lo aiutasse, lo compatisse, lo seguisse nelle sue scelte. Finalmente tranquillo, può godersi questa ritrovata pace insieme loro, mentre guarda i suoi nipoti giocare su quelle stesse strade dove tutto era cominciato, quando i fratelli Purcell erano usciti in bicicletta, per l’ultima volta.

Una stagione per nulla banale, che andando oltre la solita retorica e i soliti schemi, riesce ad affrontare anche tematiche complesse. Grazie all’ottima interpretazione di gran parte del cast, da ricordare soprattutto Stephen DorffMahershala Ali, lo spettatore è portato ad una spontanea empatia per i personaggi. Il buono e il cattivo sono concetti oramai superati, così come ogni riferimento alla figura tradizionale del detective, volutamente abbandonata e in parte dileggiata. Il detective non è un supereroe, Pizzolatto ci tiene a sottolinearlo, forse finendo per trascurare troppo elementi della trama che avrebbero potuto coinvolgere maggiormente lo spettatore. Manca sicuramente la forza scenica di alcuni ambienti e personaggi della prima stagione, ma forse anche questo è voluto. Il nocciolo dell’indagine deve essere solo uno, l’uomo e le sue debolezze, ed è questo il vero punto di forza di True Detective.