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C’è una ritualità in Les Derniers Parisiens che sembra ambire ad una catarsi. Ed un approdo di serenità per le proprie vite lo cercano, seppur con motivazioni diverse, i fratelli protagonisti dell’esordio alla regia di Mohamed “Hamè” Bourokba Ekoué Labitey, membri del gruppo rap La rumeur.

Nasser ha 30 anni, è da poco uscito dal carcere; torna nel quartiere parigino di Pigalle, ad attenderlo lo sguardo severo del fratello più grande Arezki, titolare del bar Le Prestige.
Tutto è essenziale e compresso nella regia del duo francese: i luoghi della banlieu, le strade, i vicoli, i volti, come se facessero parte di un universo altro, di uno sottobosco indipendente rispetto ad una città che anche per Nasser è una terra straniera.
Se il fratello infatti si accontenta dei pochi turisti che girano per il quartiere, Nasser ha l’impazienza dell’uomo a cui non basta la semplicità, e desidera vivere la quotidianità da protagonista: la volontà di organizzare delle feste alla moda nel bar lo porterà ad un scontro emotivo con sé stesso e con Arezki.

La regia si appoggia su una linearità che non fa intravedere un punto di svolta, una sensazione iniziale che assume la sua logica quando tutto finisce e cominci ad apprezzare la circolarità di colori sempre uguali, di metamorfosi continuamente abbozzate, della rabbia di un uomo che anche nel suo piccolo mondo fatica a diventare re perché le circostanze lo portano a ricevere schiaffi, a vivere di illusioni abbandonandolo ad un copione già scritto, lo stesso che rende unico e quasi invisibile Pigalle.

Les Derniers Parisiens è un racconto sottile di un ambiente con le sue storie, la sua identità che narra di generazioni, dei “nuovi francesi”, di appartenenza e riscatto con una voce mai urlata e genuina capace di restituirne le atmosfere, le contraddizioni grazie alle prove asciutte di Reda Kateb e Slimane Dazi.

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Redattore

- Il cinema per me è come un goal alla Del Piero, qualcosa che ti entra dentro all'improvviso e che ti coinvolge totalmente. È una passione divorante, un amore che non conosce fine, sempre da esplorare. Lo respiro tutto o quasi: dai film commerciali a quelli definiti banalmente autoriali, impegnati, indipendenti. Mi distinguo per una marcata inclinazione al dramma, colpa del Bruce Wayne in me da sempre. Qualche gargamella italiano un tempo disse che di cultura non si mangia, la mia missione è smentire questi sciacalli, nel frattempo mi cibo attraverso il cinema, zucchero dolce e amaro dell'esistenza -