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Tokyo 32: Just 6.5 – La recensione

In competizione con altri 13 film al Tokyo Film Festival, Just 6.5 del trentenne Saeed Roustayi ci porta nelle carceri e nei commissariati iraniani con questo avvincente thriller poliziesco impregnato di un’accesa critica alla società iraniana.

All’interno del film, lungo più di dure ore, vengono continuamente menzionati numeri: chili di droga, anni di galera, milioni di toman (la moneta iraniana).
Ci aspettiamo che prima o poi salti fuori il 6.5 del titolo.
Dobbiamo aspettare la fine per renderci conto che il 6.5 è riferito ai milioni di tossico dipendenti presenti nel paese, un numero cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni e che le autorità faticano a fronteggiare.
Sebbene la legge iraniana infligga pesanti condanne agli spacciatori, tra cui la pena capitale, la quantità di persone facenti uso di eroina, cocaina e crack continua a crescere senza sosta.

– C’è un legame tra la povertà e la tossicodipendenza – dice il regista/sceneggiatore in conferenza stampa, – l’economia ha un impatto enorme sul problema della droga e il nostro vicino di casa, come sapete, è l’Afghanistan, che fa della produzione di droga una delle sue principali attività. Le droghe continueranno a fluire nel nostro paese e con l’aumentare dell’importo, il prezzo diminuisce e il numero di tossicodipendenti aumenta.
È troppo per le autorità – 

Lo sceneggiatore/regista si focalizza su uno dei tanti casi di spaccio che vede coinvolti i due agenti della narcotici Samad (Payman Maadi) e Hamid (Hooman Kiaie), ormai esausti degli estenuanti inseguimenti stile gatto e topo che sembrano non avere mai fine. Il topo del film è Nasser Khakzad (Navid Mohammadzadeh), uno spacciatore a cui danno una caccia senza sosta e che catturano grazie alla confessione della sua ex fidanzata.
Samad vede negli spacciatori la causa di tutte le malattie e morti per abuso di droga dei tossicodipendenti del paese, veri e propri derelitti umani a cui non restano altri piaceri nella vita se non quelli dati dagli stupefacenti.

©2019 TIFF

In una delle scene iniziali viene ripreso il degrado di una comunità di tossici ammucchiati all’interno di enormi tubi in una zona industriale dismessa.
Ci sono cadaveri, bambini, gente che fuma crack, che si buca, anziani talmente fatti da non riuscire a stare in piedi.
Anche nelle carceri, dove questi vengono trasportati, le immagini di corpi tumefatti e danneggiati dalla droga sono numerose.
E Samad non manca di farlo presente a Nasser, che con i soldi della povera gente si è arricchito al punto da potersi permettere una vita a 5 stelle.

Ma la critica di Roustayi va ben oltre e scava molto più in fondo.
Lo fa mostrandoci l’evoluzione del personaggio negativo Nasser, un uomo certamente colpevole dei suoi reati ma che si è spinto fino a quel punto per garantire alla sua famiglia uno stile di vita migliore e un futuro, mandando i suoi fratelli e sorelle a studiare all’estero e comprando una casa e regali ai suoi genitori.
Quando è stato trovato nella sua casa dalla polizia era in stato comatoso dopo aver ingerito delle pasticche per uccidersi.
La pena di morte, infatti, lo preoccupa molto meno della confisca di tutti i suoi beni, comprese le case e le macchine comprati con soldi illegali alla sua famiglia e per il quale fa di tutto per risolvere.

©2019 TIFF

Nella parte finale del film, quando Samad assiste all’esecuzione capitale dei detenuti, realizza che gli inseguimenti estremi e la guerra agli spacciatori a cui ha sempre dedicato anima e corpo mettendo in secondo piano la sua stessa famiglia, non ha risolto alcun problema. Sono stati veramente i cattivi quelli ad essere stati puniti?
O sono i narcotrafficanti stessi delle vittime di un sistema piramidale di cui loro sono solo un gradino più in alto dei tossici?

Alla base di tutto, o meglio alla punta, c’è il divario economico tra ricchi e poveri all’interno della società iraniana, responsabile dell’abbassamento del livello di istruzione e di sanità, dell’aumento del tasso del crimine, della disparità tra uomo e donna, della riduzione del benessere sociale in generale.
Roustayi non ce lo dice direttamente, ma ci fa capire quanto la lotta accanita dello stato che sentenzia pene di morte a destra e a manca non stia funzionando nella lotta al narcotraffico.

©2019 TIFF

Quasi ci sorprende che un regista così giovane, per di più con un budget limitato, sia riuscito a creare un film così impegnato, intriso di rimprovero e disapprovazione, e allo stesso tempo bello da vedere, nonostante tutto ciò che ci viene mostrato sia lungi dall’esser bello. Straordinarie sono anche le interpretazioni dei due attori principali, Maadi e Mohammadzadeh, che avevano già avevano lavorato con Roustayi nella sua precedente, nonché prima, pellicola Eternity +1Day (2015).

Un thriller straziante e coinvolgente che ci tiene incollati allo schermo per tutti i suoi 135 minuti.

 

Articolo a cura di Pamela De Santis