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Thelma (2017)

Thelma è una giovane e timida universitaria norvegese che viene da una famiglia cristiana ortodossa.
Frequenta biologia, con passione e senza le distrazioni tipiche dei suoi coetanei.

In occasione del suo primo incontro con la giovane e attraente Anja, Thelma inizia a manifestare delle anomale crisi epilettiche.
Così potenti da interagire con i campi elettromagnetici, tanto da alterare il corretto flusso dell’elettricità, le traiettorie degli uccelli, spostare pesanti oggetti metallici o addirittura persone.
Ma il dottore, dopo attente analisi, arriva alla conclusione che quelle di Thelma sono convulsioni psicogene.
C’è qualcosa di più, c’è qualcosa d’irrisolto, forse nel presente della ragazza, forse nel suo passato o in entrambi e il corpo Thelma reagisce in maniera violenta e pericolosa, per se stessa e per chi le sta accanto.

Eili Harboe è Thelma

Quando meno te lo aspetti, ecco il thriller dell’anno.
Scritto e diretto da Joachim Trier, che finora avevamo visto alle prese con film come Reprise o il più recente Segreti di famiglia (Louder Than Bombs).
Tutte pellicole rigorosamente d’auteurs, che indagavano sui delicati equilibri della psiche umana o delle dinamiche di famiglie disfunzionali.

Ma siamo sicuri che in fondo non lo sia anche Thelma?

E’ dagli anni ’40 che il cinema non fa che raccontarci quanto potente sia il corpo di una donna e il caos implosivo della sua sessualità.
Soprattutto quando è sottomesso alle strette maglie metalliche della società, della religione e della famiglia.
Maglie che spesso possono  provocare un’occlusione del naturale sviluppo psicofisico.
L’esegesi del testo filmico si rivolge dunque, alla natura più intima di una ragazza/donna inespressa o traumatizzata da un lontano evento dell’infanzia.
Una pulsione così soffocata e soffocante da trasformare il dramma in un soft horror saffico dalle algide atmosfere nordiche.

Anja e Thelma

Nella stessa misura l’innocente Thelma diventa una pericolosa femme fatale senza che lei o lo spettatore, ne abbiano alcuna reale consapevolezza.
Thelma è un po’ come Eli, il vampiro imprigionato nell’eterno corpo da bambina di Lasciami entrare di Tomas Alfredson.
Thelma è Miranda in Picnic ad Hanging Rock e il fascino dei corsetti delle studentesse, il mistero e l’implosione emotiva.
E’ il corpo acerbo di Elle Fanning che sboccia in un mare di sangue refneniano, in quell’omaggio e processo di rivisitazione estetica che il regista danese ha fatto a Il bacio della pantera di Jacques Tourneur, nel suo personale The Neon Demon.
E’  il Jennifer’s Body o il piacere assassino di It Follows.

Ma soprattutto Thelma è Carrie di De Palma, pellicola con la quale il film di Trier, condivide molto.
Dalle premesse, all’ossatura narrativa.
Con un’unica, ma fondamentale, differenza.
Mentre nel film di De Palma la figura paterna non c’è, ma ha lasciato in eredità il peccato dei coniugi White e il ricordo di esso, in Thelma la figura paterna è il peccato in sé.
Ed è lui a tracciare l’inizio e la fine della storia.

Quel padre con il quale Thelma, come rivela a Anja, può parlare di tutto, quel padre che è un brav’uomo, che ha spiegato a Thelma, quando era piccola, il concetto del bene e del male.
Ma soprattutto, che cosa sono le fiamme dell’inferno.
Quel padre che instilla in Thelma quel senso di colpa e che le indica, come unica via di fuga, la preghiera.

Come faceva Piper Laurie con Carrie, un muro davanti il quale redimere le colpe.

Quel padre che sembra un moderno Re Giovanni di Serbia come raccontato nel lontano 1942, proprio da Tourneur.
Ma dietro il quale in realtà, si cela un ultimo segreto da svelare, che il regista ci fa intravedere giusto per pochi secondi in quella catartica scena in bagno, in cui l’uomo lava l’inerme e adolescenziale corpo nudo di Thelma.

L’origine del male.

Recensione a cura di Giuseppe Silipo