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The Mule – Il Corriere – La Recensione

“Aiutami, Clarence! Fammi tornare indietro! Non m’importa di quello che accadrà: ridammi mia moglie e i miei bambini! Voglio tornare a vivere!”

Così implora George ne La vita è meravigliosa. Forse è per questo che il poliziotto che ferma l’anziano corriere del cartello Earl (Clint Eastwood), non si accorge della droga ma della somiglianza dell’uomo con James Stewart.

Solo dopo una lunga esistenza di bagordi il vecchio uomo di frontiera che tanto ricorda Walt Kowalski nel precedente Gran Torino, si rende conto che ha perso di vista l’unica cosa che conta nella vita: la famiglia. Lo dice anche al giovane agente Colin Bates (Bradley Cooper) scimmiottando Jack Palance in City Slickers.

Forse non è neanche un caso che Earl abbia passato un’intera vita a coltivare emerocallidi, meravigliosi fiori il cui nome scientifico deriva dal greco e significa “bellezze di un solo giorno”. Creature a cui la natura ha destinato solo poche ore di vita dal mattino, quando sbocciano, alla sera quando appassiscono. Una velata metafora della caducità dell’esistenza umana. Paulo Coelho diceva “La vita scorre molto veloce: ti fa precipitare dal cielo all’inferno in pochi secondi.”

Da Walt a Earl c’è una differenza: il primo guidava una Gran Torino simbolo di un’America passata a cui Eastwood non smetterà mai di portare rispetto, mentre il secondo porta una pick up F-100 (sempre della Ford).

Lo fa trasportando milioni di dollari in cocaina per dei malviventi messicani. Non per arricchirsi, ma per concedersi ancora qualche momento di gloria e per sistemare i propri cari. In giro da El Paso a Chicago, Earl canta a vecchie canzoni come On the road again o Ain’t That a Kick in the Head in cui Dean Martin si domanda nell’incipit della canzone “Quanto può essere fortunato un uomo?”.

Eastwood è ancora ispirato, gira con i suoi stilemi, con il suo old style e strizza l’occhio ai grandi che lo hanno da sempre ispirato.

La sceneggiatura l’affida sempre a Nick Schenk da un articolo del The New York Times: The Sinaloa Cartel’s 90-Year-Old Drug Mule. Chi meglio di lui, già autore proprio di Gran Torino e che nel frattempo aveva scritto il bellissimo The Judge, dove similmente un anziano Robert Duvall doveva fare i conti con la vita, la famiglia e i rimpianti.

The Mule ricorda il recente The Old Man and the Gun di Redford, operazioni nostalgiche alle quali qui si aggiunge una infinita serie di riflessioni sull’America perduta. Quella dove non serviva googlare per cambiare la gomma di un’auto. Un’America gerontocratica (perché no, anche cinematograficamente parlando). Un’America dove, non tutti, ma molti non associavano la N-word al razzismo. Earl non ha infatti peli nella lingua e chiama i messicani mangiafagioli (“beaner”) o la famigliola afroamericana (“negro folks“). Insomma un’America dove non si vende su internet un fiore che appassisce dopo un giorno.

D’altronde Eastwood è sempre stato un nostalgico conservatore. E anche quando fa incazzare mezza Hollywood, sostenendo apertamente Donald Trump, riesce comunque ad essere un poeta. Come nella vita reale anche i suoi personaggi da Josey Wales a Will Munny, da Kowalski a Earl, non sono sempre delle brave persone, ma pagano, non senza rimorso, per i loro peccati.