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The Front Runner – Il Vizio del potere

La storia del Political Cinema a Hollywood è costellata di capolavori. Senza scomodare classici del calibro di Citizen Kane, ce ne sono a dozzine che hanno affrontato argomenti come sesso, potere, ingerenza dei media, privacy, menzogne, gole profonde e quant’altro. Nell’America in cui tutto o è bianco o è nero, dei cattivi e dei buoni, dei cowboy e degli indiani e del bipolarismo repubblicani-democratici, argomenti del genere si prestano perfettamente al dualismo tra protagonista e antagonista.

Diverso è il discorso per questo The Front Runner – Il Vizio del potere di Jason Reitman. Adattamento cinematografico del romanzo del 2014 All the Truth Is Out scritto da Matt Bai, il film si muove pavidamente tra la critica al ruolo dell’informazione, la morale dell’uomo e l’etica del politico. Non prende una specifica parte, né una direzione. Non sostiene un’idea o un punto di vista. Il film ricostruisce la storia del novello JFK, Gary Hart (Hugh Jackman), giovane esponente del Partito Democratico e Senatore del Colorado dal 1975 al 1987. Un predestinato della politica che ha corso per le presidenziali nel 1984 e nel 1988. Durante questa seconda esperienza elettorale, ad un passo dall’essere eletto Presidente degli Stati Uniti d’America, ebbe la sfortunata e un po’ fessa idea di farsi pizzicare con le brache calate. Fu uno degli scandali sessuali più celebri che coinvolsero un politico statunitense. Superato forse qualche anno dopo dal celebre sexgate tra Monica Lewinsky e Bill Clinton.

Uno “sbatti il mostro in prima pagina” (citazione non casuale) che coinvolse non solo lo stesso Hart, ma anche la moglie Lee (Vera Farmiga) e ovviamente la provocante e giovane Donna Rice (Sara Paxton).

Da un punto di vista prettamente cinematografico sorprende la virata autoriale di Reitman. Ci siamo abituati alle sue intime, delicate pellicole indie (per quel che vuol dire ormai questa parola). Film come Juno, Young Adult o Tully, in cui la quota Diablo Cody ha fatto la sua parte. Pellcole che strutturano in maniera originale e ficcante, eleganti silhouette psicologiche femminili, senza mai cadere nel banale. Qui invece siamo sul terreno minato della realpolitik femminista, non immune dall’ondata a tratti populista degli scandali Weinstein & Co.

The Front Runner è girato con una classicità a tratti senile da Reitman. Ma il ragazzo ci sa fare e meravigliosi piani sequenza e un taglio fotografico agée, ma rassicurante come uno spot della Coca Cola anni ’80, intrattengono lo spettatore fino ai titoli di coda. Un film insomma gradevole da un punto di vista formale ma inconcludente da quello contenutistico.

Il George Clooney regista ha affrontato con un piglio molto simile prove come Good Night, and Good Luck e Le idi di marzo. La pellicola di Reitman ricorda molto stilisticamente questi due film. Ma dietro quelle pellicole c’era un’idea. Soprattutto gli autori si schieravano senza se e senza ma. Reitman invece sembra, da una parte condannare l’ingerenza dei media, per poi tirare una menata moralista sul peccatore Hart. Pessimo marito e padre ipocrita. Queste incertezze penalizzano il film a tal punto da poterlo tranquillamente paragonare ad un altro per molti versi simile: I colori della vittoria (Primary Colors) del 1998. Similmente alla pellicola di Mike Nichols, The Front Runner inoltre condivide un protagonista poco istrionico e dotato (almeno in questa prova).

Non ci aspettavamo di certo una via di mezzo tra Tutti gli uomini del presidente di Pakula e La Chinoise di Godard, ma fossimo in Reitman non ci allontaneremmo da Diablo Cody neanche per lavarci i denti.