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The Florida Project – Il capolavoro indie di Sean Baker

Moonie, Scooty e Jancey vivono in Florida nel degrado dei coloratissimi motel della vicina Disneyworld di Orlando, sono tre simpatiche canaglie, ragazzini che ne combinano di cotte e di crude, liberi e selvaggi come i cagnolini di Tati in Mon Oncle.

Mentre loro vagano indisturbati, tra gli edifici semi abbandonati della zona, nel mondo “reale” i genitori faticano a portare a casa i soldi necessari per il mantenimento della famiglia. Si arrangiano come possono, vendendo quel che possono, se necessario anche il loro corpo. A vigilare su tutte queste anime in pena, c’è poi Bobby (uno straordinario Willem Dafoe) che amministra questo fatiscente condominio, preoccupandosi di cimici, riverniciature, elettricità, ma anche dell’ingrato compito di riscuotere gli affitti e far traslocare i residenti.

Giusto cinque anni fa il regista Sean Baker con un paio di iphone aveva realizzato Tangerine, una satura pellicola indipendente sulla prostituzione losangelina, il meritato contrappasso per chi troppe volte ha visto Pretty Woman.

Un film nei confronti del quale si evidenzia un tratto derivativo ma mai ridondante, almeno nella misura in cui si considera quello di Baker un discorso unico ed uno sguardo non comune sulla società americana, iconograficamente rappresentato dalla continuità tra Tangerine e l’Orange World, agrumi totemici sia in California quanto in Florida.
Un fil rouge tra due stati “uniti” da una demografia interracial ghettizzata alla quale il melting pot europeo si sta pian piano avvicinando.

Esiste una sorta di selettiva memoria apologetica nel dio denaro e nell’american dream, che permette di vedere i sorrisi delle casalinghe sixties alle prese con famiglie mai sazie di Pecan Pie e di ignorare il degrado urbano delle classi meno abbienti, i cui figli elemosinano pochi cents per un gelato da dividere in tre. Brutto poi quando l’ultimo boccone casca a terra, in una scena essenziale, di matrice bressoniana, che testimonia una regia potente, asciutta e laida, capace di catapultare lo spettatore nel cuore della realtà come fosse un omino di google maps tra le strutture edili della retorica dysneyana.


Proprio qui nelle locations di The Florida Project, Walt sognava una piccola Pleasentville, all’interno della quale potessero esaudirsi tutti i sogni dei bambini ma anche degli anziani che notoriamente scelgono le temperature calde di questo Stato per le loro sciatiche e per le trascurate cervicali, in un vero esempio di Disney World a differenza di quanto poteva fare il parco originario per via della sua collocazione.

E’ proprio l’aspetto dicotomico tra tossici, zoccole e l’utopia dysneyana delle strutture d’accoglienza dei lobotomizzati turisti, il plus valore di una pellicola che contribuisce a definire, se ce ne fosse stato ancora bisogno, Sean Baker come uno dei più interessanti registi indie (per quel che significa oggi questa parola) nel panorama, mai apatico del cinema americano.

Anche perché nella patria dei Padri Pellegrini si trovano tanti autori capaci, ma troppo spesso menomati dall’assenza di quella lucida onestà intellettuale e del coraggio produttivo, necessaria per realizzare film senza le lenti deformanti e i filtri cromatici nelle consolidate forme stilistiche hollywoodiane.
Tanto che pochi anni fa era stato necessario l’intervento di una grande regista britannica Andrea Arnold, per realizzare una pellicola idealmente simile (date un’occhiata alle due locandine) che sbaragliò Cannes con il Premio della Giuria, quello straordinario affresco giovanile che è stato American Honey.
Un altro amaro ritratto di un paese dimenticato.
Altro che Disneyworld.