Come in Warrior anche i personaggi principali di The Accountant si muovono e agiscono secondo i dettami ricevuti dalla propria famiglia o comunque ne hanno subito l’influenza.
Così è diventato uomo Christian Wolff, eccellente matematico affetto da una forma di autismo, preparato fin da piccolo dal padre colonello ad affrontare la vita come una guerra per non rischiare di essere schiacciato dalla prepotenza altrui. L’addestramento militare assimilato in infanzia convive con la sua abilità di contabile freelance per potenti organizzazioni criminali.
Due lati opposti del suo essere che però fanno di Christian l’individuo che conosciamo, un uomo schivo, un “diverso” che non sfugge la realtà, anzi desidera, con le sue mancanze, farne parte.
Partendo da un figura affascinante e controversa come quella interpretata da Ben Affleck, Gavin O’Connor vuole costruire uno scenario dove il male può essere “giustificato”, schiacciato in favore di una sopravvivenza che allievi le paure, le incertezze di un uomo che vorrebbe essere altro ma che inevitabilmente assume determinati comportamenti perché ormai insiti nella sua natura.
Il soggetto del film è di enorme potenziale; il suo sviluppo invece latita perché affida al personaggio (seppur centrale) di Chris Wolff il peso dell’intera narrazione, il compito di riempirne le sfumature.
Ben Affleck, per inciso, lo fa egregiamente: le poche parole, le stesse dinamiche trasmettono il rigore e l’invisibilità di uomo che vive da rifugiato. Le scene d’azione, i corpo a corpo sono avvincenti e pregni ma non bastano a sostenere una sceneggiatura poco incisiva, a tratti scolastica e deficitaria nel ritmo.
Intendiamoci non è un passo falso: il film sa mantenere con autenticità la curiosità su un profilo ricco di spunti riflessivi facendo di un percorso criminale la base per scavare in un’anima apparentemente imperscrutabile. Questo però non è accompagnato fino in fondo dal vigore, dal coinvolgimento che aveva contraddistinto il precedente lavoro di O’Connor.