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Il Tempo dei Gitani: gli “zingari felici” di Kusturica

«Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito» .

Siamo in Jugoslavia negli anni precedenti alla dissoluzione della repubblica titoista. Perhan, un ragazzo gitano timido ed ingenuo che suona l’armonica. La sua umile vita la condivide con la vecchia nonna Khaditza, una guaritrice che lo ha di fatto adottato come figlio sin dalla nascita. Insieme a loro c’è anche la piccola Danira, zoppa ad una gamba per una malattia congenita, molto legata a Perhan. Quindi lo zio Merdzan, un po’ pazzo e un po’ alcolista, con la mania del gioco. Perhan è innamorato di Azra, una giovane vicina di casa. La madre di lei, Ruza, è però contraria a questo matrimonio per le condizioni di miseria del giovane Perhan, povero e senza prospettive professionali. Le cose cambiano quando la nonna Khaditza guarisce il piccolo figlio del ricco Ahmed, detto Sceicco. In cambio l’uomo s’impegna a portare la piccola Danira in un ospedale per farle operare la gamba e il giovane Perhan, in cerca di fortuna, in Italia.

Nel 1988 la bomba Kusturica era già stata sganciata nel panorama cinematografico europeo, prima di quelle dell’imminente conflitto.

Il regista è già un nome che conta, grazie a Ti ricordi di Dolly Bell?, vincitore del Leone d’oro come miglior opera prima alla Mostra del Cinema di Venezia, ma soprattutto con Papà… è in viaggio d’affari, Palma d’oro come miglior film al 38º Festival di Cannes. Opera maiuscola, Il tempo dei Gitani, è un elogio allo sfarzo della povertà zigana, alla famiglia, al riscatto, legato alla specifica comunità, ma per estensione a tutta l’ex Jugoslavia. Quindi da intendersi come speculazione più intimamente politica. L’opera terza (se non si contano i due film per la tv) del regista di Sarajevo è poesia della polvere e di una terra. Un elogio alle suggestioni del realismo magico, tanto sudamericano che europeo.

L’inizio di una nuova ed eccitante stagione cinematografica balcanica dai forti connotati felliniani.

Lirismo e folklore fotografato da Vilko Filac, danzano sulle note di Ederlezi, il brano che celebra l’equinozio di primavera e dice: “noi siamo poveri anche nel giorno di San Giorgio”. Forse la canzone gitana più conosciuta al mondo grazie soprattutto alla versione di Goran Bregović, amico/nemico e collaboratore di Kusturica, separati negli anni da diatribe politiche ed economiche. Da qui torniamo al punto di partenza. “Quando è sparita la Jugoslavia, io sono diventato invisibile”. Il film attraversa tutta la ex-Jugoslavia: parte da Skopje nella Macedonia del Nord, il Kosovo, la Serbia, Bosnia-Erzegovina, la Croazia, tutto grazie alla celebre Autostrada della fraternità e dell’unità. Autoput “Bratstvo i jedinstvo” una distesa di cemento di oltre mille km, voluta da Tito.

Kusturica, bosniaco, filo-serbo rappresenta cinematograficamente quel grande e chiassoso calderone che è stata l’ex-Jugoslavia.

“Quelle patrie” con tutte le sue lingue, religioni, culture, feste e tradizioni. Ecco perché il suo cinema è sempre stato multicolore, visionario, pacifico, antibellico, antinterventista, antirevisionista. Legato al contraddittorio socialismo titoista, non tanto da una reale convinzione politica, ma da quei toni elegiaci simili alla ostalgie verso la DDR.

Con Il tempo dei Gitani, il cinema di Kusturica caleidoscopico, malinconico, surreale e sfrenato, si rende più consapevole, prima tappa della sua maturità artistica, al quale manca ancora attenzione alle strutture coesive della narrazione. Citando il Morandini: “L’organizzazione del materiale è discutibile, ma le invenzioni strepitose abbondano.”

Resta questo meraviglioso affresco tra realismo e fiaba, immerso in una comunità perennemente discriminata dai pregiudizi tipici dell’antiziganismo e dalla romaphobia. Kusturica ne approfitta per rendere omaggio al maestro del cinema jugoslavo Aleksandar Petrović, citando la sua opera più nota: Ho incontrato anche zingari felici. Film del 1967 che ha ispirato la canzone e l’album del cantautore italiano Claudio Lolli.