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Tarapia tapioco: una risposta alla superficialità

Nota introduttiva: il contenuto del presente articolo è il pensiero del suo autore, che si assume ogni responsabilità, non dell’intero sito.

“Tarapia tapioco, prematurata la supercazzola o scherziamo?” [Il conte Mascetti (Ugo Tognazzi) in Amici Miei di Mario Monicelli, 1975]

“Terapia sadomaso, animali che parlano, casa degli orrori nel bosco. Fra le tante amenità, taglio di clitoride da parte della moglie, masturbazione con schizzo di sangue, mi fermo qui.” [Pino Farinotti a proposito di Antichrist di Lars Von Trier, 2018]

Inizio con queste due citazioni all’apparenza così distanti ma invero assai assimilabili. Non solo per l’assonanza tarapia/terapia ma anche per il loro significato: come, infatti, la celebre battuta di Ugo Tognazzi nel capolavoro di Mario Monicelli non aveva alcun reale significato ed era uno strumento per prendere in giro l’interlocutore, così l’estrema sintesi di Antichrist, ad opera di Pino Farinotti, il quale ha scritto un j’accuse contro Lars Von Trier, è assolutamente svuotata da qualsiasi senso a causa della sua puerile superficialità. Sia l’una, dunque, che l’altra si rivelano come atti infantili che però si differenziano per l’intento: se il “tarapia tapioco” ha uno scopo goliardico, il “terapia sadomaso” è estremamente serio e serioso e si pone come tentativo di screditare l’opera di uno dei più importanti registi europei e non solo degli (almeno) ultimi 30 anni.

Chi sta scrivendo è un ragazzo di 23 anni che ha appena aperto gli occhi sul mondo, un bambino a paragone del critico in questione. Un bambino che, però, ha un’idea ed ha il coraggio di esprimerla, come lo ha avuto Farinotti, in questo articolo-critica-risposta ad un j’accuse che trasuda superficialità. La critica mossa da costui al regista danese pare obnubilata da un odio viscerale che la priva di qualsiasi forma, anche minima, di oggettività, la quale dovrebbe, a mio avviso, essere sempre la base su cui creare un discorso critico: la soggettività, ovviamente, non può mai mancare, altrimenti non esisterebbero pensieri differenti, tuttavia essa deve essere sempre e solo un singolo mattone di un più ampio muro discorsivo.

PUNTO 1. SULLA LEGGITIMITA’ DELL’ETICHETTA DI “SOPRAVVALUTATO”.

Il primo punto di questa critica alla critica parte dal titolo dell’articolo in cui Farinotti ha attaccato Lars Von Trier: “Il più grande sopravvalutato del cinema”. Questa etichetta, che spesso si sente e legge attribuire a questo o quel regista o film, ovvero quella di “sopravvalutato”, è qualcosa che viene sempre utilizzato con leggerezza, senza riflettere sul significato di questo significante e su ciò che implica. Dire “X è sopravvalutato” significa, secondo chi scrive, annullare l’opinione altrui per imporre la propria come verità assoluta. Non è solo il pubblico, infatti, che sancisce cosa è valido d’attenzione e cosa no. È soprattutto il tempo a decidere se questo o quel regista, questo o quel film, sia degno della propria fama: ricordiamo, ad esempio, che all’epoca della sua uscita 2001: Odissea nello Spazio ricevette un’accoglienza tiepida, per usare un pallido e garbato eufemismo; è stato il tempo, è stata la storia a decidere definitivamente che il film di Stanley Kubrick sia a tutti gli effetti un vero capolavoro. Son passati 50 anni ed ancora è attualissimo, visivamente e non solo. Se io, in questo articolo, dicessi “2001: Odissea nello Spazio è un film sopravvalutato”, ignorerei 50 anni di storia per imporre la mia opinione al di sopra della storia stessa.

Ogni film e regista riceve sempre la considerazione più adatta al proprio valore. E se pure fosse vero che i giudizi che un’opera o artista riceve nel proprio presente siano falsati dall’entusiasmo o dal disprezzo dell’istante, sarebbe comunque il tempo a riequilibrare questo rapporto valore/considerazione. Ed è dal 1984 che Lars Von Trier dimostra ciò di cui è capace, da L’elemento del crimine. Tra il 1984 ed il 2018 ci sono ben 34 anni, un lasso di tempo più che sufficiente affinché la storia possa stabilire l’importanza ed il valore del regista danese. Ed è vero, questa è solo la mia opinione e per alcuni potrebbe valere quanto un pezzo di carta igienica: “Chi sei tu per controbattere a Farinotti?”. Sono una persona con un amore viscerale per il cinema e con una certa cultura, senza dubbio infinitamente inferiore rispetto alla sua, sia per motivi anagrafici che legati al lavoro. Tuttavia, si tratta sempre di una persona che espone un’opinione circa quanto detto da un’altra persona, nessuno è Dio, nessuno detiene la Verità.

Le parole hanno sempre un significato ed implicano sempre qualcosa oltre esso. Nessuno può porsi al di sopra del tempo e della storia, gli unici giudici dell’essere umano e delle opere d’arte. Anche dire “per me è sopravvalutato”, l’implicazione di questa affermazione non cambia: ogni artista ed ogni opera riceve, con il tempo, il riconoscimento che meglio corrisponde al proprio reale valore. “Non mi piace, preferisco un altro regista, un altro film, un altro stile per questo, questo e quest’altro motivo” è il miglior modo di muovere critiche sensate a qualsiasi cosa.

PUNTO 2. L’ANTICRISTO SUPERFICIALE.

Quando si parla di un film, e di un’opera d’arte in generale, raramente è un bene aggrapparsi alla superficie del senso. Bisogna sempre squarciare la tela visiva per addentrarsi al di là dello schermo, alla ricerca di significati che potrebbero celarsi dietro l’immagine. Il cinema è un’esperienza immersiva, questo è vero soprattutto nel cinema d’autore: ciò significa che bisogna letteralmente immergersi nel film, come esploratori subacquei, alla caccia dei pesci più rari e belli. Un sub che si mette le mani davanti agli occhi perde solo il suo tempo e le sue energie. Dopo aver letto il j’accuse in questione, ho deciso di leggere la recensione di Farinotti su Antichrist (qui la mia recensione per Jamovie, qui la sua), il film di Von Trier del 2009, primo capitolo della trilogia della depressione. Personalmente, adoro il film e tutta la trilogia, tuttavia conosco molto bene i motivi per i quali potrebbe non piacere. Molto spesso, tra gli spettatori, si sentono critiche superficiali all’opera, che si fermano all’inutile violenza dell’opera o a situazioni estreme fini a loro stesse. Critiche simili me le aspetterei da uno spettatore appassionato di cinema ma che di cinema non vive e, soprattutto, che non potrebbe influire la ricezione generale di un film con il proprio parere superficiale.

Ciò non significa che si debba dire che i film di Von Trier siano sempre bellissimi. Critiche negative sono tanto utili ed indispensabili quanto quelle positive. La cosa pericolosa non è la critica negativa in sé ma la critica superficiale. All’epoca della pubblicazione della recensione su Antichrist, il 2009, ancora non si sapeva che sarebbe stato il primo capitolo di una trilogia sulla depressione che ha colpito il regista, dunque non era immediata una certa lettura dell’opera. Tuttavia si sapeva che sarebbe stato un film estremamente personale, anche nel pressbook, come riportato dal critico stesso, era esplicitata questa sua natura intima (“vorrei invitarvi a un piccolo sguardo dietro il sipario, uno sguardo nel buio mondo della mia immaginazione, nella natura delle mie paure.”). Eppure la critica mossa dal Farinotti non si impegna a guardare oltre la superficie, soffermandosi sul taglio del clitoride, sulla masturbazione sanguinosa o sugli animali parlanti, senza chiedersi il “perché”, quel principio di ragione tanto caro alla filosofia che risiede all’origine di ogni cosa.

Ma la cosa più grave ed aberrante, per il sottoscritto, di tutta la recensione al film si trova nel paragrafo finale. Un’affermazione agghiacciante che da un critico affermato e famoso come quello in questione non ci si aspetterebbe mai di sentir dire: “La mia speranza, e l’augurio è che nelle sale dove proiettano i suoi film, ci vada poca gente, poi pochissima, poi… nessuno”. Personalmente, una fantasia simile è quanto di peggiore un appassionato di cinema possa concepire. “Sala vuota, macchina senza operatore che proietta in automatico, e la macchina che si… autoguasta”. La morte del cinema. Personalmente, un augurio simile non lo farei neanche nei confronti della più becera ed ignorante commediaccia. Il cinema è un’arte che vive anche, se non soprattutto, nelle sale, ciò vale anche per i film che non ci piacciono, ed ogni artista è importante per la propria arte, pur se ci risultasse antipatico. Un critico con una carriera pluridecennale alle spalle dovrebbe saperlo e dovrebbe difendere il cinema. Farinotti, invece, si è posto come sventurato profeta della morte del cinema. La prima volta che mi son ritrovato a leggere queste parole, ho sentito il sangue gelarsi nelle mie vene.

PUNTO 3. SUL DOVERE DEL SERVIZIO.

L’ultimo punto sul quale voglio soffermarmi è sul dovere del servizio che Farinotti vorrebbe imporre alla figura dell’autore, affermando che un regista dovrebbe dare indicazioni che permettano di capire l’opera ed aggiungendo che a nessuno interessa la psiche e la personalità di Von Trier. Si potrebbe banalmente rispondere a quest’ultima affermazione che il sottoscritto adora l’aspetto psicologico delle sue opere e ne è affascinato, il che sottolinea la fallacia di quest’ultima critica. L’opera d’arte è sempre l’estrinsecazione della psiche e della personalità dell’autore, come dissi nella recensione di Eraserhead di David Lynch (potete trovarla qui), un’estrinsecazione più o meno palese e più o meno ampia; non solo ma l’opera d’arte è anche la chiave d’accesso a noi stessi. Io son convinto che guardare un film ci permetta di guardare dentro noi stessi: come interpretiamo un film, l’intensità delle emozioni che esso suscita in noi e quali emozioni esso susciti, tutto ciò che concerne la percezione del film (e di un’opera d’arte in generale) è lo specchio di noi stessi. Mi spingo oltre: guardare dentro un artista è uno dei modi più forti per guardare dentro noi stessi. Per questo motivo assistere al recondito, come dice il critico, di Von Trier nei suoi film diviene un potente mezzo di autoanalisi. Forse quella che segue è una considerazione estremamente personale, forse un po’ troppo personale, a dire il vero, ma io ho avuto modo di approfondire molto la mia conoscenza di me stesso guardando la trilogia della depressione di Von Trier. Ma questa forse è solo una pura questione di empatia.

Anche Ingmar Bergman, uno dei più importanti registi della storia del cinema, autore di capolavori assoluti come Il settimo sigillo, Persona, Il posto delle fragole, Come in uno specchio e molti altri, ha sempre utilizzato il cinema come autoanalisi, come materializzazione artistica dei propri dubbi e dei propri demoni, fino a raggiungere il colossale Fanny och Alexander, una serie televisiva, ridotta poi a film, autobiografica. Il cinema del maestro svedese è sempre una porta sulla mente dell’autore stesso, eppure il Farinotti lo ha definito un “autore assoluto, un riferimento e un eroe” (link). Perché l’opera di Von Trier e quella di Bergman, entrambe estremamente personali, dovrebbero ricevere un differente trattamento? Perché le paure di Von  Trier non dovrebbero essere degne d’attenzione e dovrebbero essere snobbate e quelle di Bergman, invece, dovrebbero essere contemplate come una reliquia religiosa? Si tratta sempre di un riflesso interiore di due autori meravigliosi, che possono piacere o non piacere ovviamente, ma il fatto che un regista non piace non dovrebbe implicare un differente metro di giudizio “ad personam”.

Ciò sul quale si sbaglia ulteriormente è il dovere del servizio dell’artista, sull’obbligo di dare indicazioni all’utente per la comprensione. Ogni artista ha un approccio diverso e non deve sempre muoversi dalla parte del pubblico. L’arte surrealista ne è un esempio, talvolta vi sono impulsi che aiutano lo spettatore a comprendere; altre volte, invece, queste indicazioni non ci sono e non devono esserci: è più stimolante la contemplazione di un film che dice tutto o di uno che sussurra o, addirittura, si barrica dietro una barriera di mutismo lasciando che sia lo spettatore ad addentrarsi dentro l’opera stessa? Il già citato Eraserhead è forse il miglior esempio che si potrebbe fare: neanche lo stesso Lynch, per un lungo periodo della lavorazione al film, era sicuro di cosa il suo primo lungometraggio parlasse, fino al momento in cui gli capitò di leggere un versetto della Bibbia, che gli rivelò il senso di questo film apparentemente privo di senso. Quale versetto? Lynch si è sempre rifiutato di rivelarlo. C’è da aggiungere, poi, che il Farinotti parla di dovere del servizio e dell’obbligo di dare indicazioni all’utente, tuttavia, nel corso del suo intero j’accuse, non fornisce mai una reale indicazione sul perché Von Trier sarebbe “il più grande sopravvalutato del cinema”, soffermandosi ad una sterile disamina riassumibile in: “Lars Von Trier mi sta antipatico e quindi è sopravvalutato”.

CONCLUSIONI.

Un j’accuse così superficiale può essere davvero pericoloso per il pubblico, soprattutto se viene da un critico così importante (ma, nonostante questo mio lunghissimo articolo, sempre degno del massimo rispetto) come Pino Farinotti. Perché non è questo il modo in cui si dovrebbe fare critica in modo professionale, perché la superficialità è uno strumento deleterio per la crescita culturale dell’uomo, la quale dovrebbe essere uno dei primi obiettivi, se non il primo, della critica dell’arte. Io non so nemmeno se Pino Farinotti leggerà mai questa mia critica alla sua critica né se, nel caso in cui la leggesse, le darebbe anche solo la minima  importanza. Tuttavia credo che sia giusto ed importante che un “ragazzo qualsiasi”, che non ha alcuna importanza nel mondo, come il sottoscritto, abbia la possibilità di rispondere ad una personalità importante come quella del Farinotti, non per gettare discredito sul suo rispettabilissimo nome ma per illustrare i motivi per cui una critica simile potrebbe essere estremamente limitante e dannosa. Bisogna sempre andare oltre la superficie. Sempre. Un semplice “tarapia tapioco” non può essere una critica valida ad un regista importante, amato tanto quanto detestato, come Lars Von Trier.