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Takeshi Kitano: il comico triste che ascolta il mare

L’infanzia

Takeshi Kitano nasce il 18 gennaio 1947 ad Adachi, nella zona nord di Tokyo. Il padre si chiama Kikujiro, nome che Kitano sceglierà per uno dei propri personaggi, fa l’imbianchino e ha il vizio delle donne, delle scommesse e dell’alcol. Rissoso e violento, l’uomo abbandona la moglie e i figli in una situazione economica disastrosa. La famiglia si vede così costretta a trasferirsi a Senju, uno dei quartieri più poveri della metropoli. Nel 1968 non senza enormi sacrifici da parte della severa madre, il giovane Kitano si iscrive all’università frequentando l’ambiente intellettuale e artistico di Shinjuku. Il temperamento ribelle portano il ragazzo ad essere espulso dall’istituto. Inizia così il periodo più importante per la maturazione artistica di Kitano.

Asakusa Kid

Il futuro regista trova lavoro nella zona di Asakusa, una via di mezzo tra il “Village” e un enorme parco dei divertimenti, pieno di cinema, teatri e locali. Qui Kitano trova lavoro come ascensorista, un punto di osservazione privilegiato dove spiare i comici che si esibivano tra uno strip-tease e l’altro. Una sera uno dei comici non può salire sul palco e Takeshi viene chiamato per sostituirlo. Da quel momento non smetterà di mai più di essere un artista. E’ il 1972 e Kitano,sotto l’ala protettrice del famoso comico Senzaburo Fukami, inizia a studiare danza, recitazione e teatro satirico classico giapponese. Quindi con un suo amico Kaneko Kiyoshi, forma il gruppo chiamato Two Beats specializzandosi in manzai. Si tratta di una sorta di stand-up politicamente scorretto e talmente volgare da attirare critiche ma anche l’attenzione dell’ambiente tradizionale e conservatore. Alla fine degni anni Settanta abbandona il suo compagno di avventure Beat Kiyoshi, andando a lavorare in tv. Scrive e dirige Takeshis’ Castle un vero fenomeno di culto in tutto il paese, giungendo addirittura anche in Italia grazie al riadattamento grottesco della Gialappa’s Band di “Mai dire banzai”. Il format era semplice Takeshi, vestito con un classico smoking bianco e nero presentava una serie di personaggi buffi che dovevano affrontare sfida assurde e spesso degradanti. Idiocracy allo stato puro ma che decise il successo e la notorietà di Kitano.

L’esordio dell’uomo pericoloso

Parallelamente alla carriera televisiva Kitano fa gavetta nel cinema con piccole parti, tra le quali spicca quella in Furyo (Merry Christmas, Mr. Lawrence, 1983) di Nagisa Ōshima. Ma la svolta arriva quando viene scritturato per il ruolo da protagonista in Violent Cop, il titolo originale è traducibile con”Attenzione, quest’uomo è pericoloso!”. Per ragioni mai del tutto chiarite il regista del film Kinji Fukasaku rinuncia all’incarico e Takeshi che all’epoca aveva 42 anni, chiede alla produzione di dirigere la pellicola. Kitano ha due possibilità: fare di Violent Cop un classico yakuza movie, genere molto apprezzato in Giappone o ispirarsi ai polizziotteschi made USA. Kitano ha un’altra idea. Il suo Violent Cop è esistenziale, citazionista, estetizzante, anti-eroico.

Le atmosfere sono cupe e dilatate, le musiche di Daisaku Kume che rielabora Satie lo rendono epico quasi leoniano. Kitano inizia a comprendere il ruolo essenziale dei silenzi e delle note nel suo cinema. Tarantino se ne accorge e pochi anni dopo frulla tutto, anche questo Asakusa Kid, nel suo di esordio.

Violent Cop è un fiasco clamoroso, ma importa poco. L’anno successivo Kitano gira Boiling Point, parliamo sempre di yakuza movie ma questa volta l’autore è più consapevole del mezzo e delle potenzialità espressive del suo cinema e del cinema in generale. Monta da solo (anche se non accreditato) il film e conferisce un maggiore spessore autoriale alla storia, iniziando dal valorizzare l’elemento allegorico. La spiaggia di Okinawa e il mare come catarsi e il martirio come necessità di redenzione. Tutti elementi che ritroveremo nel cinema del regista.

Il poeta che ascoltava il mare

L’anno successivo è la volta de Il silenzio sul mare (Ano natsu, ichiban shizukana umi), terzo film del regista, alla sua prima collaborazione col compositore Joe Hisaishi. Kitano abbandona il gangster-movie e racconta la storia d’amore tra Shigeru e Takako, entrambi sordomuti, puro esistenzialismo bermaniano. Poi c’è il mare onnipresente dolce e poetico ma che incombe spietatamente sulla loro vita. Silent Love, traccia ricorrente del film, rappresenta la certezza che l’autore non può più fare a meno di Hisaishi che tornerà a musicare le spiagge di Okinawa nel successivo Sonatine presentato nella sezione Un Certain Regard del 46º Festival di Cannes.

E’ la conferma di un regista maturo che diventa in breve tempo un punto di riferimento per molti auteurs cresciuti artisticamente negli anni 90. La consacrazione definitiva arriva nel 1997 con Hana-bi – Fiori di fuoco vincitore del Leone d’oro alla 54ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Summa stilistica di Kitano il film coniuga la brutalità yakuza alla poetica naïf .

Faccia da duro, tratti impassibili, il detective Nishi è uno che si tiene tutto dentro.” Scrive Fabio Ferzetti all’uscita della pellicola, “ed è proprio questo ‘dentro’ che il film ci fa scoprire ma goccia a goccia, scena dopo scena, sorprendendoci ogni volta e rendendo non solo tollerabile ma giustificata e perfino necessaria tanta violenza”.

Beat Takeshi che faceva ridere tra uno strip-tease e l’altro, ha lasciato definitivamente il posto ad uno dei maggiori cineasti di fine secolo.

Stile e riferimenti cinematografici

I silenzi di Ozu, l’epica fordiana, la violenza di Kubrick, le geometrie hitchcockiane, situazionismi da silent era (L’estate di Kikujiro sembra una rivisitazione del monello di Chaplin), Bresson, Dreyer, Bergman, Antonioni. E’ impossibile quantificare e qualificare lo stile di Takeshi Kitano. Come si è detto il suo è un cinema che attinge quasi inconsapevolmente ad una moltitudine di maestri della settima arte. Parlando proprio dei suo riferimenti Kitano ha detto: Fellini e Godard sono i miei preferiti. Il paragone è un onore. Però i loro film non li ho mai capiti bene. Mi piacciono sì, ma non li capisco. Forse il mio cervello non è in grado. I miei sono di tutt’altra pasta. Non serve nessun sforzo, non c’è niente da capire, niente da spiegare. Quello che voglio è solo che la gente si diverta. O che si annoi o che si senta frastornata. Annusateli, lasciatevi andare: è solo un film.”